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L’Etiopia al bivio

Tra guerra civile e crisi politica, quali prospettive nella crisi etiope? L’analisi di Daniele Ruvinetti

I ribelli della regione settentrionale del Tigray in Etiopia hanno ripreso la storica città di Lalibela: è questa l'ultima evoluzione di un conflitto che dura ormai da molti mesi e che ha gettato milioni di persone in una crisi umanitaria, creando una situazione di tensione estrema in una delle aree più strategiche del pianeta, il Corno d'Africa, ossia il collo di bottiglia geomorfologico – e dunque geopolitico – in cui il Mar Rosso sfocia nel Mar Arabico. Detto in maniera più larga, laddove il Mediterraneo si allarga all'Indo-Pacifico.

Lalibela – famosa nel mondo per le undici chiese rupestri monolitiche, scavate nella roccia nel XII e XIII secolo, e designate patrimonio mondiale dell'Unesco nel 1978 – era stata catturata dalle forze del Tigray ad agosto, ma poi ne avevano perso il controllo a favore del governo federale due settimane fa, quando era in corso un'avanzata che le fanfare governative di Abiy Ahmed descrivevano come una (altra) operazione di riconquista che avrebbe messo fine alle violenze.

Inutile aggiungere che così non è stato. Nonostante le forze federali siano state spinte dalla presenza al fronte del primo ministro, tornato anche in questi giorni in prima linea per alzare il morale delle truppe, e nonostante i governativi abbiano dichiarato di aver catturato una serie di città strategiche sulla strada per la capitale del Tigray, Mekelle, e di aver riconquistato terreno nelle ultime fasi della guerra, la situazione è ancora molto complessa e fluida.

Difficile peraltro comprendere l'evoluzione dei fatti, visto che c'è molta propaganda da entrambi i fronti e la gran parte delle comunicazioni internet è stata bloccata per volontà del governo. Inoltre, la copertura giornalistica è parziale perché i media internazionali si muovono male, con condizioni di sicurezza scarsissime e collegamenti, appunto, precari.

Quello che è, ahinoi, assodato è che l'Etiopia settentrionale sta affrontando una situazione in cui la fame sta diventando un problema di massa, con più di nove milioni di persone che hanno bisogno di forniture alimentari base: di queste condizioni critiche nelle regioni di Tigray, Amhara e Afar, hanno parlato apertamente le Nazioni Unite. A ciò si uniscono le violenze contro i civili portate avanti sia dai ribelli tigrini che dalle milizie che si trovano sul fronte opposto.

I combattimenti sono scoppiati da più di un anno, quando il premier Abiy ha inviato le truppe nel Tigray per reprimere iniziative indipendentistiche del Tigray People's Liberation Front, fazione etnica, politica e armata, che ha dominato l'Etiopia per decenni e ora controlla la maggior parte della regione orientale. L'operazione doveva essere rapida e indolore, diceva il già Nobel per la Pace, ma così non è stato. Da giugno i ribelli hanno lanciato una controffensiva di successo e ora il timore è che minaccino attacchi su Addis Abeba.

La situazione è stata da subito oggetto delle attenzioni internazionali, perché l'Etiopia ha per lungo tempo rappresentato un simbolo di funzionamento economico e democratico per i paesi africani. Le recenti evoluzioni hanno portato diversi paesi, su tutti gli Stati Uniti, a chiedere lo stop dei combattimenti – che non è arrivato. All'enorme problema umanitario si somma quello di carattere geopolitico regionale.

L'Etiopia comprende dozzine di etnie che si sono irradiate nei paesi limitrofi, e questo ha già prodotto l'intervento in guerra di forze straniere, come quelle eritree per esempio. Il rischio di una balcanizzazione, che significherebbe l'implosione del progetto di sviluppo etiopico, è evidente. Inoltre, sulla crisi pesano dinamiche come quelle che riguardano la contesa sulla diga Gerd, che coinvolge anche Egitto e Sudan. E pesano gli interessamenti di diversi attori esterni, come la Turchia, i Paesi del Golfo, la Russia.

Il ruolo che l'Unione europea e gli Stati Uniti stanno cercando di giocare è quello di peacekeeper, perché il rischio è che una definitiva escalation dei combattimenti – scontri nella capitale, sangue e altre violenze – possa portarsi dietro anche un aumento dei coinvolgimenti esterni. Uno scenario tutt'altro che remoto, finora controllato, per quanto possibile, proprio dal peso diplomatico e politico giocato da Washington e Bruxelles.

Oltretutto, questo avviene, come detto, in una fascia come il Corno d'Africa, sulla quale si proiettano le conseguenze delle instabilità nordafricane e saheliane, e su cui si allungano gli interessi di carattere strategico di molti attori – alcuni interessati più al caos che all'ordine.

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