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Libano: la doppia crisi del paese dei cedri

Il Libano è al centro di molteplici crisi simultanee, che rendono il paese a rischio di instabilità. L’analisi di Claudia De Martino

Il Libano è al centro di molteplici crisi simultanee, i cui effetti si sommano gli uni agli altri, rendendo il paese dei cedri fortemente instabile e oggetto di gravi tensioni regionali. Dopo la crisi di liquidità finanziaria originatasi a partire dall’agosto del 2019 e l’esplosione dei container al porto il 4 agosto del 2020 – le cui cause sono state chiarite (unitamente all’alta concentrazione di nitrato di ammonio nel capannone n.12, l’esplosione fu innescata da uno scadente lavoro di saldatura del portellone realizzato il giorno prima da operai siriani), ma le cui responsabilità politiche ed amministrative non sono mai state accertate– l’opinione pubblica ha imposto al governo di dimettersi. Ma da allora il paese versa in piena crisi politica, non riuscendo a concludere un accordo interconfessionale per l’elezione presidenziale, dopo la scadenza del mandato del presidente uscente, Michel Aoun, nell’ottobre 2022.

A questo estremamente teso panorama interno, si sono aggiunte le sfide regionali, dettate dallo scoppio della guerra a Gaza tra Israele ed Hamas, a cui il partito sciita di Hizbullah ha deciso di fornire supporto esterno, lanciando una pioggia di razzi dal confine settentrionale verso il territorio dello stato ebraico. L’azione militare di Hizbullah e la rispettiva violenta reazione di Israele, hanno costretto all’evacuazione di 80.000 civili da parte israeliana e 90.000 da parte libanese dalle zone oggetto di lancio di razzi, con oltre 500 vittime dal lato libanese, per la maggior parte civili, e 21 israeliane. Nonostante entrambe le parti continuino a rassicurare la comunità internazionale di non desiderare un’escalation, molti analisti sostengono sia altamente probabile che un evento accidentale possa innescare un conflitto su larga scala. Inoltre, la situazione diplomatica è in stallo, con Hizbullah che punta ad un cessate-il-fuoco definitivo a Gaza e Israele che ritiene indispensabile ripristinare la massima deterrenza al confine nord – ovvero il trasferimento delle armate di Hizbullah oltre il fiume Litani, a circa 30 km dal confine – per evitare altri attacchi come quelli del 7 ottobre e per permettere agli abitanti evacuati di fare ritorno alle loro case, indipendentemente dall’esito dei negoziati su Gaza. Una distanza tra le parti che resta ampia, dato che Israele non intende concedere una pace che includa il ritiro definitivo delle truppe senza aver prima raggiunto risultati militari concreti sul terreno a Gaza, ovvero l’arresto di Sinwar, la decapitazione dell’organizzazione o la resa di tutti i battaglioni di Hamas operativi nei tunnel sotterranei, in gran parte ancora funzionanti.

Essendo i due conflitti – di Gaza e del Libano – annodati tra loro, è quasi impossibile che il secondo cessi unilateralmente se non si trova un accordo definitivo sul primo. E tuttavia, da una prospettiva prettamente nazionale, la guerra non è affatto auspicabile per Hizbullah (e forse nemmeno per l’Iran), dal momento che il “Partito di Dio” rischierebbe di perdere in un conflitto diretto con Israele il suo ruolo di attore politico centrale sullo scacchiere libanese, così difficilmente acquisito negli anni e già oggetto di contestazioni interne, soprattutto dopo la svolta repressiva delle manifestazioni di piazza dell’ottobre 2019 a seguito della crisi finanziaria. Hizbullah, infatti, è accusato dai cittadini senza netta appartenenza confessionale di essere passato da “partito di opposizione” durante le Primavere arabe, a “partito di governo” a difesa dello status quo. I suoi molteplici avversari politici – ovvero le Forze Libanesi, i gruppi sunniti e i drusi – lo accusano di mettere a repentaglio la sopravvivenza del paese per Gaza e per combattere una guerra regionale che molti partiti libanesi non vedono come una priorità. Infine, Hizbullah sa di non poter contare su molti alleati regionali oltre alle milizie sciite finanziate dall’Iran e di essere avversato da numerosi paesi dell’area – come Arabia Saudita, Giordania ed EAU – sia per il suo posizionamento geopolitico filoiraniano sia per il commercio illegale di captagon siriano, con il quale il “Partito di Dio” finanzia parte delle sue attività militari. Si tratta infatti di una droga che inonda i mercati della Giordania e dei paesi del Golfo. In ritorsione, nell’aprile 2021, Riyadh ha sospeso del tutto l’importazione di prodotti agricoli libanesi, causando un danno diretto di 100 milioni di euro in mancate esportazioni ai già indigenti contadini locali. Così come avvenuto nel caso dell’accordo del 2022 sullo sfruttamento del giacimento di gas di Qana, scoperto a largo delle acque territoriali libanesi (le cui riserve totali di gas sono poi sfortunatamente state ridimensionate da esplorazioni condotte nel 2023), Hizbullah è dunque costretto a negoziare, in quanto obbligato a rispondere ai bisogni di una popolazione civile economicamente in ginocchio che non può rinunciare ad alcuna opportunità di approvvigionamento energetico, dove molte abitazioni ricevono la corrente solo per due ore al giorno e dove ospedali e servizi pubblici sono soggetti a periodici blackouts. Hizbullah veste infatti un doppio cappello di organizzazione militare e di partito nazionale: due identità con priorità diverse, molto difficili da conciliare.

Con un Libano in profonda difficoltà politica e finanziaria, la Commissione europea ha siglato un fragile accordo di assistenza pari a 1 miliardo di euro, da investire nel triennio 2024-2027, nominalmente per finanziare istruzione, protezione sociale e sanità pubblica. Tuttavia, solo una parte dei fondi saranno devoluti al tentativo di non far sprofondare del tutto nel caos i servizi pubblici libanesi, perché una parte cospicua dell’investimento Ue sarà allocata all’arresto dell’immigrazione illegale, considerata l’elevata presenza (1.5 milioni) di profughi siriani nel paese. L’Unione europea, con tale investimento, cerca di subentrare all’UNHCR in un negoziato diretto con il governo libanese. L’Agenzia ONU ha, infatti, annunciato la prossima riduzione dei propri servizi ai rifugiati siriani, a seguito di drastici ridimensionamenti di budget da parte dei paesi donatori. Nondimeno è innegabile che l’Ue risponda soprattutto a pressioni interne degli stati membri ed in particolare di Cipro, verso cui i flussi migratori sono ripresi su larga scala.

Alcune voci molto critiche si sono levate all’interno dei think tanks vicini alle istituzioni europee, come lo European Council on Foreign Relations, che sostiene che “fornire aiuti all’esercito libanese comporti esclusivamente un aumento dell’insicurezza per i rifugiati siriani”. Altre voci critiche, come quella dell’Economist, ritengono che l’Ue si sia stata troppo accondiscendente verso l’agenda del governo libanese, senza chiedere nulla in cambio in termini di riforme democratiche. Il problema fondamentale rimane che i rifugiati siriani, alcuni dei quali ormai profughi da oltre una decade, non possano fare ritorno in un paese in cui al governo rimane lo stesso regime – la famiglia Assad – che li ha perseguitati in massa, causando lo scoppio della guerra civile.

Altre potenze dell’area, come l’Arabia Saudita, sembrano essersi ultimamente riconciliate con il Libano o non percepire più una minaccia gli instabili equilibri interni al paese dei cedri. Ad inizio luglio, Riyadh ha infatti annunciato un prestito paragovernativo di dieci milioni di dollari, erogato dal King Salman Humanitarian Aid and Relief Center (KSrelief), al Lebanon’s High Relief Committee, un comitato che si occupa dei più bisognosi, inclusi i profughi, dopo che già nel 2022 aveva varato con la Francia di Macron un fondo di sviluppo congiunto di 30 milioni di euro per progetti umanitari. Gli Emirati Arabi Uniti hanno annunciato la distribuzione di materiale sanitario e la Mezzaluna rossa del Kuwait ha inviato generi alimentari a 2500 famiglie in difficoltà nel sud del Libano. Infine, il Qatar, il donatore più generoso, ha varato nel 2022 un pacchetto di aiuti pari a 60 milioni di dollari per pagare gli stipendi all’esercito libanese, a cui si è aggiunta recentemente una nuova tranche di 20 milioni di aiuti per fronteggiare le sfide attuali – in particolare il confronto tra Israele e Hizbullah.

Tuttavia, i paesi del Golfo non svolgono un ruolo di mediazione nella crisi interna libanese, ma si limitano a sovvenzionare singole iniziative di sviluppo per mantenere il paese “a galla”, che non sono sufficienti a produrre un clima politico stabile e a sbloccare il processo democratico. La mediazione della Francia, che fino a poco tempo fa esercitava una pressione su tutte le componenti libanesi, intrattenendo relazioni anche con Hizbullah (che Parigi non considera un’organizzazione terroristica), è venuta meno a causa dell’intenso periodo elettorale e dei problemi interni al paese. Sono rimasti solo gli USA con il loro mediatore Amos Hochstein a scongiurare la possibilità di un confronto diretto tra Israele e Hizbullah. Il resto dell’Ue, impegnato in negoziati interni per la nomina dei suoi vertici dopo le recenti elezioni europee, è distratto dai problemi interni dell’Unione e non ritiene il Libano una priorità, nonostante molti paesi membri, tra cui l’Italia, finanzino fin dal lontano 1978 la Forza ONU di interposizione militare UNIFIL, in passato spesso a guida italiana, che potrebbe costituire la prima vittima collaterale di un eventuale conflitto, trovandosi sulla linea di fuoco.

L’eventualità di un conflitto imminente preoccupa certamente anche Israele, soprattutto considerato l’addestramento militare che le unità combattenti d’élite del “Partito di Dio” hanno ricevuto nella guerra civile siriana, per il possesso da parte di Hizbullah di circa 150.000 missili e razzi a lunga gittata e di droni acquisiti dall’Iran, con potenza di fuoco calcolata in oltre 4000 missili al giorno (quota eccedente anche i sistemi di difesa antimissilistica israeliana come l’Iron Dome), nonché per via dell’unità combattente al-Hajj Redwan, specializzata nella guerra dei tunnel per la penetrazione in territorio israeliano e dispiegata lungo la Blue Line. In Israele, infatti, la maggioranza (61%) degli intervistati, secondo un recente sondaggio Agam, è favorevole ad un confronto militare con Hizbullah, ritenendolo l’unico mezzo disponibile per ripristinare la normalità nel nord del Ppese, nonostante una parte minoritaria ma cospicua dell’opinione pubblica ritenga l’azione diplomatica internazionale, sulla base della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu n. 1701, ancora preferibile ad un’operazione militare. Tuttavia, i vertici dell’esercito temono che, dopo oltre nove mesi di guerra ed una mobilitazione costante dell’esercito di leva e dei riservisti (nuovamente portati a 300.000), il paese arrivi stremato ad una nuova guerra, rispetto alla quale è difficile non preventivare effetti negativi sull’economia, oltre che sul morale del paese. Risulta, invece, complesso monitorare cosa accada dal lato libanese, dove non sono disponibili sondaggi sulla propensione dei cittadini alla guerra, mentre evidentemente negative sono le opinioni di tutti i principali leader politici non sciiti del paese. Dalle Forze Libanesi di Gagea, passando per il leader socialista druso Jumblatt, l’ex premier Fouad Seniora, il partito cristiano Kataeb di Gemayel, fino al partito del Futuro (Tayyār al-Mustaqbal) di Saad Hariri, sono tutti contrari ad una guerra che riporterebbe il paese indietro ai tristi anni della guerra civile e delle invasioni israeliane del 1982 o del 2006. Tali partiti ritengono infatti che, con una povertà all’80%, un’inflazione galoppante ed un debito pubblico senza precedenti, il paese sia già sull’orlo del collasso e che una guerra con Israele potrebbe far implodere quel minimo di solidarietà che fino ad oggi ha tenuto insieme il popolo libanese oltre gli steccati confessionali, causando una “sirianizzazione” del paese dei cedri.

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