Libia, continuano le tensioni
In Libia, anche dopo l’incontro tra il ministro degli Esteri Najla el Mangoush e il suo omologo israeliano, permane una situazione di difficoltà e tensioni. Il punto di Daniele Ruvinetti
La Libia è tornata a interessare la cronaca mainstream. L’episodio scatenante è stato l’incontro, avvenuto a Roma, tra il ministro degli Esteri libico, Najla el Mangoush, e il suo omologo israeliano, Eli Cohen. Meeting preparato in precedenza – si parla anche di altri possibili incontri tra funzionari libici e israeliani, mai confermati –, che tuttavia è costato il posto a Mangoush.
È pacifico che il problema nella vicenda sembrerebbe risiedere anche nella scarsa accortezza diplomatica: se l’incontro aveva certamente un suo valore nell’ottica delle normalizzazioni tra Israele e il mondo arabo (in parte promosse dallo schema degli Accordi di Abramo, ma non solo), l’eccesso di comunicazione ha bruciato le tappe e innescato proteste popolari e degli organi istituzionali in Libia, nonché critiche diplomatiche da parte degli Stati Uniti (dato che l’amministrazione Biden si sta spendendo per permettere a Israele di continuare quel processo di distensione).
In Libia è un reato avere rapporti con Israele, e questo si abbina ad un contesto governativo tutt’altro che stabile. Da qui sono scaturite le conseguenze: il primo ministro Abdel Hamid Dabaiba, che a quanto pare era consapevole e concorde nella costruzione dei contatti, al fine di proteggere il suo governo, come prima mossa ha sospeso, Najla el Mangoush. Dabaiba guida, infatti, un esecutivo che non solo non gode più della fiducia parlamentare, ma nemmeno controlla tutta la regione in cui è insediato. I recenti scontri armati, che sono costati la vita a diverse persone, hanno infatti dimostrato che a Tripoli le milizie non sono affatto stabilizzate, e lo scontro per il potere sotto Dabaiba persiste. A Misurata, altro centro di potere sulla costa centrale, si registrano frequenti mobilitazioni contro il premier – misuratino per altro – sospinte da chi sta sfruttando questo fragile contesto per riemergere.
Se per ragioni di vicinanza geografica, un paese come l’Italia non può non avere buoni rapporti con qualsiasi governo installato a Tripoli, così come è necessario mantenere le relazioni con la Cirenaica (che sulla vicenda Mangoush si è mostrata attendista), è altrettanto necessario prendere atto della realtà. Quanto accaduto al ministro ha messo ulteriormente in difficoltà l’esecutivo. E questa condizione di difficoltà emerge anche nel più recente briefing del rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Abdoulaye Bathily, il quale ha sottolineato la necessità di creare in Libia un governo tecnocratico.
Questo potrebbe essere il punto di caduta. È un percorso ancora in essere quello verso un nuovo esecutivo, sponsorizzato anche da grandi attori esterni che potrebbero garantire stabilità al processo – ad esempio, l’ambasciatore statunitense ha recentemente ribadito la necessità di imprimervi una significativa accelerata. È una situazione di cui da tempo chi segue la Libia ha consapevolezza – su cui la vicenda di Mangoush apre ulteriori considerazioni –, e i recenti scontri a Tripoli suonano come un campanello d’allarme.
In effetti, la via di un governo terzo e unificato parrebbe essere l’unica percorribile per uscire dallo stallo, anche perché vi convergono attori regionali di primo piano come l’Egitto, mentre altri potrebbero esserne convinti nel breve periodo. Il consolidarsi di questo percorso pone però Dabaiba in una posizione più debole, e ciò potrebbe dare il via ad ulteriori processi destabilizzanti.
Le istituzioni libiche – Consiglio presidenziale, Camera dei Rappresentanti, Alto Consiglio di Stato – sembrano interessate a procedere nei colloqui in questo senso, orientandoli in funzione elettorale. Perché quello sarebbe il principale scopo del nuovo esecutivo, come si ripete da tempo: portare il paese al voto nel modo più ordinato e celere possibile.
Vale la pena valutare anche che se Dabaiba sia un potenziale “scoglio” da superare in Tripolitania; in Cirenaica c’è ancora una solida presenza del generale Khalifa Haftar, che esercita un controllo militarizzato su buona parte del territorio orientale. Mentre nell’Ovest proseguono gli scontri – alimentati anche, in via pretestuosa, dal caso Mangoush –, stando alle informazioni provenienti dall’Est, Haftar potrebbe essere parte del dialogo in corso per creare un nuovo esecutivo. Includerlo è ovviamente necessario, anche perché da lui passano equilibri come quelli che riguardano il ruolo della Russia. Mosca è ancora presente sul territorio libico con gli uomini del gruppo Wagner, le cui attività sono in fase di revisione dal Cremlino dopo la scomparsa del leader Yevgeny Prigozhin e dopo l’ammutinamento in Russia. Mosca, però, difficilmente rinuncerà a un asset di tale valore.