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L’inattesa resilienza degli Accordi di Abramo dopo un anno di guerra a Gaza

Gli Accordi di Abramo sembrano essere sopravvissuti dopo un anno di guerra. Ma il processo di distensione regionale sembra avere avuto una battuta d’arresto. L’analisi di Claudia De Martino

Gli Accordi di Abramo sembrano essere sopravvissuti ad un anno di guerra a Gaza. Tuttavia, è difficile non constatare che la visione di distensione regionale inaugurata dall’Amministrazione Trump e sostenuta dall’Amministrazione Biden abbia subito una drastica battuta d’arresto e che, a dispetto dei concreti vantaggi arrecati dalla normalizzazione con Israele, molti Paesi arabi e musulmani si interroghino oggi sull’opportunità di proseguire su questa strada difronte alle crescenti tensioni regionali.

Se nell’ottobre 2023 il Primo Ministro Netanyahu affermava che il suo Paese fosse sull’orlo di un passo storico con l’Arabia Saudita, ovvero l’ingresso di Riyadh negli Accordi di Abramo, dopo il 7 ottobre il Principe Mohammed bin Salman ha posto in stallo qualsiasi negoziato diretto con Israele, analogamente ad altri Paesi a maggioranza musulmana considerati prossimi al riconoscimento di Israele, quali l’Indonesia, l’Oman e la Mauritania. Il progetto di costruire una sorta di ASEAN del Medio Oriente, nelle parole del Senior Advisor for Regional Integration in the Bureau of Near Eastern Affairs, Daniel B. Shapiro, appare oggi prematuro.

Esemplare il caso del processo di normalizzazione con l’Indonesia - interessata al parere positivo di Israele sul suo ingresso nell’OECD e già partner commerciale di Tel Aviv per un valore complessivo di 500 milioni di dollari all’anno -, il cui ex Presidente Widodo aveva firmato con Tel Aviv un Memorandum of Understanding nel settembre 2023, e il cui attuale Presidente, Prabowo Subianto, è ancora un fautore della normalizzazione. Infatti, in considerazione della guerra a Gaza, il paese asiatico ha posto il cessate-il-fuoco e il riconoscimento dei diritti dei Palestinesi come requisiti preliminari ad ogni accordo. Le relazioni bilaterali tra i due Paesi proseguono officiosamente, con Jakarta recentemente autorizzata da Israele -a differenza di altri paesi come Turchia e Qatar – a entrare nella Striscia di Gaza per consegnare aiuti umanitari. Per la più grande democrazia musulmana non è però possibile procedere ad uno scambio diplomatico ufficiale a fronte dell’attuale escalation israeliana e delle provocazioni di eminenti Ministri dell’attuale Governo israeliano sullo status quo dei Luoghi Sacri di Gerusalemme, come le visite del Ministro della Pubblica sicurezza Ben Gvir al Monte del Tempio/Haram as-Sharif.

Il tema dello status quo dei Luoghi Sacri è infatti discriminante per tutti i Paesi arabi e musulmani, almeno tanto quanto il destino della Cisgiordania. , Su questo fronte l’attuale Governo israeliano, in carica dal dicembre 2022, ha stabilito tra le proprie linee guida che “il Primo ministro promuova passi per applicare la sovranità israeliana su Giudea e Samaria”, ovvero gli attuali Territori occupati palestinesi, e che “gli ebrei hanno un diritto esclusivo e inalienabile su tutti i territori dal Mediterraneo al Giordano”. Laddove il precedente “Governo del Cambiamento” a guida Lapid-Bennet aveva tentato di rilanciare la cooperazione regionale inaugurando periodici accordi ai vertici sotto la formula dei “summit del Negev” e limitando le frizioni con l’Autorità Nazionale Palestinese, componenti dell’attuale Governo israeliano sembrano meno interessate ad alimentare gli Accordi di Abramo, coltivando prospettive maggiormente isolazioniste.

Nondimeno, tali Accordi, che avevamo promesso innovazione e stabilità regionali e cooperazione in materia di spazio, intelligenza artificiale, gestione delle risorse idriche, sviluppo sostenibile e energie verdi, cybersecurity e cooperazione militare, sono ancora di primario interesse per Israele, ed in particolare per il Governo Netanyahu e il suo partito Likud, che se ne sono fatti inizialmente promotori e che hanno sbandierato l’iniziativa presso l’opinione pubblica israeliana come il definitivo superamento della logica di Oslo. Gli Accordi sono infatti considerati una delle grandi vittorie della Destra israeliana, che ha sostituito alla formula “pace in cambio di territori” l’attuale strategia “pace in cambio di pace”, procedendo a negoziati diretti con i Paesi arabi indipendentemente dalla questione palestinese. Accordi che hanno portato, in soli quattro anni, benefici materiali tangibili -come accordi commerciali bilaterali, apertura di nuove tratte aeree, possibilità per gli Israeliani di viaggiare e aprire nuove attività nella regione – valutati positivamente da una maggioranza di Israeliani (53% secondo l’Israeli Foreign Policy Index del Mitvim, 2022), che, coerentemente, auspicano un coinvolgimento maggiore dei Paesi arabi oggetto di normalizzazione nel conflitto israelo-palestinese (per il 57%). Una campagna, quella per l’allargamento degli Accordi di Abramo, portata avanti dall’attuale Ministro degli esteri israeliano Eli Cohen del Likud anche in piena guerra, con le aperture di Tel Aviv a Paesi musulmani esterni alle tensioni regionali come Mauritania, Niger, Somalia e Chad, con cui Israele auspica di ufficializzare le relazioni diplomatiche o di rilanciarle (nei casi in cui fossero esistite precedentemente e poi state sospese, come con la Mauritania).

Se gli Accordi di Abramo nel 2024 hanno rallentato il passo e subito un raffreddamento momentaneo, essi hanno anche dato prova di una eccezionale resilienza difronte alla palese ostilità di alcuni membri dell’attuale Governo israeliano, al loro rifiuto da parte della maggioranza delle opinioni pubbliche dei Paesi arabi, che continuano a rigettare gli Accordi in percentuali che oscillano tra il 70% e l’80% (secondo un sondaggio condotto dal Washington Institute 2022), ora probabilmente ulteriormente incrementate, e allo scoppio di un conflitto su larga scala tra Israele e i movimenti dell’Asse della resistenza i (Hamas e Hezbollah). Il loro relativo successo è giustificato, infatti, dai vantaggi tangibili e di lungo periodo che, nel calcolo dei Paesi partner, essi continuano ad assicurare e che eccedono i pur numerosi problemi che incontrano a livello politico nel loro sviluppo. Senza molto clamore, infatti, il Marocco ha incassato il sostegno israeliano sulla sua sovranità sul Sahara occidentale e ha firmato un contratto per 1 miliardo di dollari con la società israeliana Israel Aerospace Industries (IAI) per incrementare i suoi sistemi di difesa aerea e uno con la Bluebird Aero System per installare sul suo territorio una fabbrica di droni. Nel Golfo il commercio con il Bahrein ha registrato un incremento del 900% nel 2024, quello con gli Emirati Arabi Uniti, già incrementato notevolmente dall’accordo di libero scambio (Comprehensive Economic Partnership Agreement, CEPA) siglato nel 2023, è continuato stabilmente a crescere, anche se più lentamente (+4%), mentre il valore complessivo dell’esportazione israeliana di armi ha raggiunto 13 miliardi di dollari. Oltre al commercio, vi sono i palesi vantaggi in termini di sicurezza dovuti alla crescente integrazione regionale, ottenuti grazie al trasferimento di Israele dal Commando europeo al CENTCOM (dal 2021), con conseguenti vantaggi in termini di condivisione a livello regionale di intelligence e di integrazione tattica con la 5° flotta statunitense, alla costituzione della Middle East Air Defense Alliance (MEAD) - che include Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Bahrain, Giordania, Qatar e Egitto -, alleanza con l’obiettivo di intercettare e contrastare missili di provenienza iraniana o dei sui alleati regionali (Houthi, Hezbollah, Hamas) e all’istituzione di una Task Force (Combined Task Force 153 or CTF 153, aprile 2022) dedicata alla sicurezza marittima, che punta all’installazione di sensori e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale per il monitoraggio del traffico di navi nel Golfo arabico/persiano e nel Mar Rosso. E i terreni di cooperazione possono ulteriormente approfondirsi nel settore nucleare, dopo l’annuncio del Commissario IAEA Moshe Edri, alla 66° conferenza generale dell’agenzia (settembre 2022), sull’intenzione israeliana di condividere aspetti della sua tecnologia nucleare con i partner degli Accordi di Abramo e la proposta ventilata da Tel Aviv di creare una “banca per l’energia nucleare” in Arabia Saudita per lo sviluppo di un programma nucleare civile, supervisionata dalla comunità internazionale e dall’IAEA in un’ottica di non proliferazione, in cambio della sua sottoscrizione degli Accordi di Abramo.

Inoltre, per i Paesi del Golfo, gli Accordi vigenti potrebbero intrecciarsi con il progetto dell’India-Middle East-Europe Economic Corridor (IMEC) di matrice indiana, che dal settembre 2023 rivaleggia con la Belt and Road Initiative (BRI) a guida cinese . Il piano prevede che le merci possano transitare dall’India via mare verso gli Emirati Arabi Uniti e da lì proseguire via terra attraverso l’Arabia Saudita e la Giordania fino al porto di Haifa in Israele, assegnato fino al 2054 ad un consorzio indo-israeliano, da cui si imbarcherebbero verso i porti europei. IMEC sarebbe molto più di un semplice corridoio di trasporti, ma rappresenterebbe un circuito integrato anche da punto di vista energetico e della connettività digitale, nonché potrebbe facilitare la costruzione di un gasdotto dell’idrogeno che potrebbe sostituire l’attuale trasporto marittimo verso l’Europa, molto più dispendioso e inefficiente. A prescindere dalla fattibilità di questo nuovo faraonico progetto a marca indiana, è già possibile riscontrare uno spostamento del traffico commerciale regionale di provenienza dall’Asia e a destinazione Europa via terra, lungo la rotta definita dall’IMEC, a seguito degli attacchi portati avanti dagli Houthi sui carichi commerciali e le petroliere in transito nel Mar Rosso, che hanno fortemente ridotto (-47.0%) il traffico marittimo lungo la tradizionale rotta del Canale di Suez.

Infine, la maggiore integrazione regionale favorisce anche Egitto e Giordania, Paesi non partner degli Accordi di Abramo che, però, ne beneficiano indirettamente. Re Abdullah ha contribuito ad aprile 2024 all’intercettazione dei missili iraniani di lunga gittata su Israele perché condivide la percezione dell’Iran come una minaccia, soprattutto nella forma delle milizie filo-iraniane presenti in Siria, che alimentano il mercato di captagon, una potente droga, commercializzata all’interno dei confini giordani, ma anche dai suoi proxies presenti in Iraq (Kata’ib Hezbollah), che destabilizzano il Regno hashemita addestrando militanti palestinesi e rifugiati siriani nei campi profughi (i “Mujahideen della Resistenza islamica in Giordania”). Nonostante l’opposizione agli Accordi di Abramo, invece, il traffico commerciale tra Giordania e Israele attraverso il ponte Allenby e lo Sheikh Hussein Crossing è continuato indisturbato anche in piena guerra a Gaza e durante le operazioni militari in corso nei campi profughi di Jenin e Tulkarem, beneficiando parzialmente anche della sospensione delle relazioni bilaterali tra Israele e Turchia. Il temporaneo congelamento con Ankara ha portato anche ad un incremento del commercio bilaterale con l’Egitto, che è diventato il principale fornitore di prodotti agricoli ad Israele, registrando un incremento del commercio del 53% nel 2024, soprattutto trainato dalle esportazioni egiziane (25m di dollari nel maggio 2024).

Difronte all’attuale escalation regionale e al perpetrarsi delle operazioni militari a Gaza e della loro estensione al Libano in una possibile escalation regionale, alcuni interlocutori fondamentali di Israele, come Emirati Arabi Uniti, stanno raffreddando le loro relazioni con Tel Aviv e ponendo un freno al processo di normalizzazione. Altri attori regionali che fanno parte degli Stati arabi “moderati”, come l’Arabia Saudita, ad esempio, hanno preso una ferma posizione di difesa dell’integrità territoriale e della sovranità del Libano, ribadita alla 79esima sessione dell’Assemblea delle Nazioni Unite dalle parole del Ministro degli esteri saudita, il Principe Faisal bin Farhan, che ha agitato lo spettro di un conflitto che, oltre ad aver già causato oltre 1000 morti, rischia di provocare una nuova ondata di profughi nella regione (ad esempio, di Siriani di ritorno in patria, ma anche diretti verso la Giordania).

Il processo di normalizzazione, però, resta nel lungo periodo l’interesse strategico di molti attori regionali, incluso Israele. L’abbattimento del “muro di ferro”, secondo a celebre definizione dello storico Avi Shlaim, con il mondo arabo e il superamento dell’isolamento che Israele ha conseguito grazie agli Accordi di Abramo resta, infatti, uno dei pochi risultati concreti ottenuti da Israele con la diplomazia riconosciuto ed apprezzato dall’opinione pubblica israeliana. È indubbio, inoltre, che al termine dell’attuale conflitto, Tel Aviv avrà ancora più bisogno dei suoi partner regionali per avviare la ricostruzione della Striscia di Gaza, che non potrà finanziare in maniera esclusiva e che, tendenzialmente, necessiterà, oltre che delle risorse europee ed americane, anche di ingenti capitali del Golfo. Ma soprattutto, Israele avrà bisogno di una nuova legittimità internazionale che solo i Paesi intenzionati alla normalizzazione e all’approfondimento degli Accordi di Abramo possono fornirgli, comunicando al resto del mondo musulmano segnali di distensione e integrazione regionale opposti e contrari al rigetto totale come un corpo estraneo nella regione da parte dell’asse filo-iraniano. È quindi vitale, ma anche nell’interesse di Israele, che la comunità internazionale ponga fine alla corrente escalation, ma anche che l’ONU imponga già da oggi un dibattito sull’urgente necessità della ricostruzione a Gaza che possa coinvolgere i Paesi della regione e degli Accordi di Abramo, in grado di svolgere il ruolo di mediatori tra una popolazione palestinese martoriata, disillusa e al collasso e un Paese ebraico traumatizzato dopo il 7 ottobre, che ora più che mai non deve cedere all’isolazionismo. E c’è di più: se Israele è alla ricerca di un incentivo concreto per un doppio cessate-il-fuoco definitivo a Gaza e in Libano, in mancanza della “vittoria totale” tanto auspicata quanto irraggiungibile in termini politici, quella spinta - argomenta Dalia Scheindlin su Ha’aretz (26/9/2024) - potrebbe giungere proprio dalla promessa di una normalizzazione con l’Arabia Saudita mediata dagli Stati Uniti. In altre parole, è proprio nella ripresa degli Accordi di Abramo che Israele potrebbe trovare una via di fuga dalla doppia crisi che l’attanaglia oggi, rompendo l’attuale isolamento politico attraverso la costituzione di un fronte “anti-Resistenza” molto più ampio, inclusivo dei suoi nuovi alleati regionali, che abbia anche una sua dimensione militare di containment. Il nuovo Medio Oriente, che Israele sembra promettersi di ridisegnare attraverso le operazioni militari in corso, potrebbe avviarsi al contrario dall’immediata cessazione delle ostilità e dalla ripresa di negoziati multilaterali capaci di istituire un ordine regionale diverso, più stabile e cooperativo, a beneficio di tutte le parti.

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