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L’India tra due fuochi

La centralità assegnata all'India dall'America di Biden potrebbe non essere vista di buon occhio dalla Russia, soprattutto dopo il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan.

Settimane addietro, dopo un lungo letargo, la “Sindrome dell’Avana”, meglio nota ai servizi segreti di mezzo mondo con il nomignolo di “Havana Syndrome” -mal di testa, nausea e disturbi dell’udito- ha scelto di tornare a farsi viva a New Delhi, dove nessuno se l’aspettava. Perchè? Domanda che sorge spontanea, visto che a farne le spese è stato, per ultimo, un membro della ristretta delegazione che lo scorso 7 settembre affiancava il capo della CIA William Burns in un riservatissimo meeting con il suo omologo indiano Ajit K. Doval. Il quale lo stesso giorno, a distanza di poche ore, avrebbe poi avuto un tete à tete con il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa, Generale Nikolai Patrushev. Due incontri aventi come oggetto, in base a quanto riferito dalle agenzie di stampa: «The evolving situation in Afghanistan and its implications on regional security… [and] ... deepening bilateral cooperation in the field of security with an emphasis on further interaction on the anti-terrorist track, combating illigal migration and drug traffiking».

Orbene, anche se nessuno è ancora riuscito a stabilire con certezza come origina, da chi e con quali obiettivi l’Havana Syndrome, si può affermare, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, che la sua ricomparsa nella capitale indiana aveva le tipiche stimmate di un singolare avvertimento. Una sorta di deterrente in codice contro la crescente centralità, assegnata dall’America di Biden all’India, nella ingarbugliata matassa del sud-est asiatico. Soprattutto dopo il ritorno al potere in Afghanistan dei Talebani.

Un’ipotesi plausibile, anche alla luce del tira e molla, diplomaticamente spietato, tra Est ed Ovest con cui l’esecutivo guidato da Narendra Modi è chiamato a fare i conti. A costo di incappare, nonostante la brillante abilità del ministro degli Esteri Subraham Jaishankar, in non poche difficoltà. Che forse qualcuno, all’ombra dell’Havana Syndrome, ha pensato bene di riuscire ad enfatizzare. Eccitando, nel caso, la contrapposizione tra le fazioni politiche filo e quelle anti americane, che albergano, irrequiete, nel Governo e nel Partito del Premier indiano, e, più in generale, nella pubblica opinione del suo Paese.

Una contrapposizione segnalata a chiare lettere da due editoriali apparsi sulle pagine del quotidiano nazionale par excellence, The Indian Express. Il primo, India’s interests won’t be served by demonising Taliban, firmato l’11 settembre dall’ex diplomatico di lungo corso M.K. Bhadrakumar. A parere del quale: «The Indian policies are at a crossroads. Continued bandwagoning with the US makes non sense. Indian diplomacy should harmonise with regional capitals, including Beijing, wich can be a natural ally on issues of terrorism».

Il secondo With AUKUS dividing the Western bloc, is there a role for India?, pubblicato il 21 dello stesso mese dal Direttore dell’Institute of South Asian Studies di Singapore C. Raja Mohan, secondo cui: «Popular and academic discourse on India’s foreign policy has been obsessed wiyh the concept of non-alignment -that shorn of all mystification- was about keeping distance from West as a whole. India’s contemporary diplomacy, in contrast, takes a nuanced view of internal dynamics in the West, and recognises the political agency of individual states, and develops wide-ranging relationships with the Western nations [...] Instead of treating the Anglosphere with disdain, Dehli has begun to vigorousely engage with the settler colonies that have so much to offer India, from natural resources to higher education and critical technologies».

La verità è che l’India di Modi, anziché finire al tappeto, come molti pensavano, dopo la disastrosa gestione della seconda ondata dell’epidemia Covid della scorsa primavera, è, negli ultimi tempi, come risorta. Guadagnando, nolente o volente, un ruolo strategico in quello che Bill Emmott, nello splendido pezzo pubblicato sull’inserto del Financial Times del 18 settembre scorso, ha definito centrifugal multipolarity, ragione per la quale viene strattonata da una parte e dall’altra a piè sospinto. Come dimostra l’agenda degli incontri di vertice che la vedono protagonista. Due esempi per tutti.

Alla fine dell’incontro del 7 settembre, di cui si è detto poc’anzi, tra i governanti indiani ed il capo dei Servizi russi è stato emesso il seguente comunicato: «They spoke about the prospects for strengthening interaction in multilateral formats […] India and Russia will be participating in two important virtual summits over the next 10 days: September 9 BRICS (Brazil, Russia, India, China, South Africa); September 16-17 SCO (Shanghai Cooperation Organisation)».

Era passata meno di una settimana che uno scoop dell’agenzia americana Axios annunciava a lettere cubitali: «The Biden administration […] plans to offer a higher-profile role for Prime Minister Narendra Modi at an upcoming Covid-19 global summit in New York [.] President Biden will host the leaders of Australia, India and Japan at the White House on Sept. 24, the first time the leaders of the Quad countries will gather for an in-person summit. Elevating the Quad is a key aspect of Biden’s strategy for competing with China. All four countries have butted heads with Beijing in recent years, making them increasingly willing to cooperate in a forum the Beijing rejects as an anti-China bloc».

Anche se saranno i fatti a chiarire le future, effettive scelte di Delhi in politica estera, appare chiaro che per l’India il “non allineamento” tra Est ed Ovest scelto da Jawaharlal Nehru a Bandung nel 1955 sembra ormai avere le ore contate.

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