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L’Iran oltre le proteste

Perché in Iran le opposizioni faticano a cavalcare l’onda lunga delle proteste? L’analisi di Emanuele Rossi

“Il futuro del movimento democratico iraniano” passa dalla Georgetown University di Washington, oppure dall’accordo firmato a Pechino tra Teheran e Riad? Nei giorni in cui il capo della diplomazia cinese sanciva l’inizio del percorso di riqualificazione delle relazioni iraniano-saudite, un gruppo di importanti personalità dissidenti iraniane formalizzavano un'alleanza contro la teocrazia di Ali Khamenei pubblicando una Carta di solidarietà e alleanza per la libertà.

Il gruppo, che si fa chiamare "Alleanza per la democrazia e la libertà in Iran", aveva annunciato la sua esistenza in un evento pubblico di febbraio presso l'Istituto per le donne, la pace e la sicurezza (GIWPS) della Georgetown. Ora, il 9 marzo, ha pubblicato il documento cardine delle sue visioni. Il giorno successivo Iran e Arabia Saudita siglavano un’intesa, in Cina, per riaprire i rapporti rotti dal 2016. Vedremo perché i destini di queste due vicende potrebbero incrociarsi.

La Carta di Mahsa

Il principe in esilio Reza Pahlavi, il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi e l'attivista canadese Hamed Esmaeilion, così come la scrittrice, giornalista e attivista per i diritti delle donne basata negli Stati Uniti Masih Alinejad, l'attrice e attivista Nazanin Boniadi e il segretario generale del partito curdo iraniano Komala Abdullah Mohtadi avevano già annunciato che avrebbero rilasciato la Carta per gettare le basi per la rappresentanza politica delle aspirazioni dei manifestanti in Iran e per ottenere il sostegno per l'isolamento della Repubblica Islamica.

Il documento è chiamato anche “Carta di Mahsa”, in riferimento "all'omicidio di Mahsa (Jina) Amini e all'inizio della rivoluzione “Donna, Vita, Libertà", che ha visto il popolo iraniano continuare a lottare per la libertà "per spezzare le catene dell'ingiustizia, della discriminazione e della tirannia", dice lo statement diffuso dagli organizzatori. Sottolineando che la strada per costruire un Iran libero e democratico è quella di superare il regime della Repubblica islamica, dichiarano: "Raggiungere questo obiettivo finale richiede i tre elementi dell'unisono, dell'organizzazione, della continuità incessante e dell'attivismo".

Oltre alle proteste: un movimento?

L’aspetto più interessante di quanto accade è che l’ondata di protesta sembra potersi condensare in un movimento, magari costruendo un sistema di leadership e iniziando a tessere una trama di consensi esterni che raccolga varie forme di dissidenza e opposizioni. Alcuni dei leader dietro alla Carta, in un’evoluzione inedita, sono stati invitati come rappresentanti iraniani alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di metà febbraio, sostituendo figure governative. Un altro punto a favore del consolidamento di questa opposizione.

L’alleanza presentata a Washington chiede sostegno internazionale, vorrebbe un riconoscimento, auspica che la teocrazia iraniana sia formalmente isolata – più di quanto non lo sia già, chiedendo ai governi che sostengono questo percorso democratico annunciato dalla Carta di Mahsa di tagliare le relazioni diplomatiche con l’Iran e di facilitare qualsiasi mezzo per “aiutare il popolo iraniano contro il regime”.

"Le azioni successive si svolgeranno con la partecipazione di attivisti all'interno dell'Iran per concentrarsi su un'equa giustizia di transizione, sulla formazione di un consiglio per la transizione del potere e sui mezzi per trasferire il potere a un governo laico e democratico", si legge nel documento, aggiungendo che "l'Alleanza introdurrà iniziative attuabili utilizzando metodi democratici da implementare alla prima occasione per portare a compimento le lotte di azione civile del popolo iraniano".

Il percorso ambizioso

Il percorso annunciato può incontrare certamente parte di consenso. C’è infatti una terza generazione post-rivoluzionaria composta dalle collettività demograficamente più giovani che cova sentimenti di protesta contro il sistema teocratico e gli effetti che produce. Va anche detto che le recenti proteste si sono diluite, dopo essere apparse un prodromo pre-rivoluzionario. È vero che il sistema ha tenuto, reagito e stretto il controllo. Ma alle proteste è mancata anche una leadership per far confluire quelle istanze in un movimento.

La Carta di Mahsa ha queste caratteristiche? È probabilmente presto per dirlo. Dopo aver ripetutamente sostenuto che ogni partecipazione era aperta, i promotori della Carta hanno enumerato 17 valori comuni per “un Iran democratico”. Ossia hanno dimostrato la volontà di consolidare le proprie pretese e dare un futuro alle proteste che hanno portato in piazza, per mesi e in varie parti del Paese, migliaia di persone – che manifestavano anche a costo della vita, vista la reazione violenta delle autorità iraniane.

Hanno dunque annunciato che la forma del futuro governo sarà un sistema laico-democratico determinato attraverso un referendum. "Tutti i membri politici e ufficiali dello Stato saranno eletti attraverso un processo elettorale libero e democratico in cui ai cittadini di ogni credo, etnia, genere e orientamento sessuale saranno garantiti dignità e uguali diritti di fronte alla legge". Inoltre sottolineano la necessità di mantenere l'integrità territoriale dell'Iran, accettando la diversità di lingua, etnia, religione e cultura, e di decentrare il potere rinviando gli affari finanziari, burocratici e politici alle amministrazioni provinciali, cittadine e regionali elette.

La Carta parla anche della formazione di un'organizzazione indipendente per la supervisione delle elezioni e dell'accettazione del monitoraggio nazionale e internazionale delle elezioni, che porterebbe a "una nuova costituzione nazionale attraverso un processo inclusivo e trasparente". "La nuova costituzione dovrà aderire alla Dichiarazione universale dei diritti umani nella sua interezza".

Inoltre si menziona anche l'abolizione della pena di morte e di qualsiasi punizione corporale e l'attuazione della Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, nonché l'istituzione di un sistema giudiziario indipendente in conformità con gli standard internazionali. Si chiede poi che venga garantita giustizia a tutte le vittime della Repubblica islamica attraverso commissioni di accertamento dei fatti sotto l'egida di tribunali equi e indipendenti, compreso il diritto a una rappresentanza legale indipendente.

L’abolizione dei Guardiani

Uno dei punti principali della Carta è l'abolizione del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche – o IRGC – e di tutte le sue propaggini. "La possibilità di integrare elementi dell'IRGC in altre forze armate come l'esercito può essere possibile solo in assenza di coinvolgimento in crimini e sulla base delle necessarie qualifiche", si legge nella Carta, aggiungendo che "le forze armate sono responsabili solo della difesa dell'integrità territoriale del Paese".

Quest’ultimo è il più rappresentativo degli incredibili ostacoli che le opposizioni dovrebbero superare per raggiungere gli obiettivi prefissati. È certo che scardinando il sistema teocratico, verrebbe meno la necessità dei Guardiani come unità militare indipendente. Ma il problema è che i Guardiani non sono più soltanto un’ala militare della Repubblica islamica, ma si muovono come uno stato nello stato, in grado di dettare la propria agenda su tutti i dossier che interessano l’Iran. E sono ormai in grado di percepire i loro obiettivi anche a detrimento della altre strutture istituzionali – o meglio, cercando di veicolare le decisioni di queste fino a intralciarne i processi di azione e decisione, ricorrendo se serve a sabotaggi dall’interno.

La divisione della leadership

La Repubblica islamica è infatti attanagliata da una fase di rimodellamento interno con effetti esterni. Il governo è indebolito da una serie di dinamiche prodotte in parte da quell’opposizione popolare, ma soprattutto da quella fazione – sempre più dominante – che cerca di destabilizzare la leadership dell’esecutivo. E l’effetto di queste articolate complessità pesa sulla proiezione internazionale del Paese.

Attorno al governo, ascrivibile alla prima generazione conservatrice post-rivoluzionaria, ruota un blocco composito costituito da qualche politico iper-ideologizzato, anti-occidentale e super-conservatore, e da un’ampia maggioranza dei Guardiani. All’interno del corpo militare teocratico si è fatta sempre più spazio la fazione che intende rompere del tutto con l’Occidente, bloccare ogni possibilità di dialogo in nome di un ripensamento strategico profondo. Questa componente, costituita dalla seconda generazione post-rivoluzione, propone come alternativa al dialogo con Stati Uniti e Unione Europea un approfondimento dei rapporti con Russia e Cina.

È parte del ripensamento strategico dell’Iran come realtà asiatica: una rivisitazione del vocabolario strategico in tutto e per tutto. La strategia iraniana di "Look East" non è una novità assoluta, riesplosa mentre gli hardliner mettevano in stallo il precedente governo del presidente Hassan Rouhani, accusato di aver portato l’Iran a cedere sull’accordo Jcpoa per il congelamento del programma nucleare, e non aver ottenuto risultati. Anzi essere stato tradito dall’uscita statunitense dall’intesa.

Una campagna di sabotaggio in corso?

Una serie di dinamiche innescate all’interno del Paese fanno pensare adesso che possano esserci attività di destabilizzazione dall’interno per dimostrare che il governo è fragile. Per esempio, come si è prodotto l’arricchimento fino all’84% di uranio (a un livello vicinissimo al 90% necessario per la bomba) ritrovato dai tecnici dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica in Iran? Chi sta avvelenando le studentesse? Chi ha guidato con violenza le repressioni delle recenti proteste?

È stato il governo stesso? Oppure è possibile che dietro a queste vicende che hanno creato grande scalpore sui media internazionali ci sia l’attività di quelle forze destabilizzanti che mirano, per interesse nel preservare ruoli e posizioni, a mostrare il governo iraniano in forma ancora più negativa? Mostrare Teheran come un Paese inaffidabile, aggressivo, spregiudicato e avventurista, potrebbe essere utile per chi intende spostare l’asse degli equilibri interni verso le posizioni più radicali delegittimando i tentativi di contatto pragmatico dell’attuale esecutivo conservatore. E da lì muovere i propri interessi nelle relazioni esterne.

D’altronde, una dinamica simile avvenne anche con Rouhani, considerato in quel caso un nemico acerrimo da tutti i conservatori (perché parte del panorama politico pragmatico-riformatore) e osteggiato in ogni possibile spazio dell’azione politica, anche attraverso attività – come per esempio il sostegno a gruppi terroristici e milizie proxy in Medio Oriente – che lo avrebbe messo in difficoltà sul fronte internazionale. Dinamiche mosse dai Guardiani e dal mondo ultra-conservatore legato a doppio giro al settore dell’industria militare iraniana.

E dunque, le opposizioni?

Conciliare le ambizioni delle opposizioni con questo genere di attività all’interno della teocrazia sembra apparentemente impossibile. Anche perché mentre l’opposizione cerca di svilupparsi su un piano parallelo che passa dall’estero, a Teheran quelle divisioni sono piuttosto dinamizzate. Per esempio, l’accordo storico mediato dalla Cina tra Iran e Arabia Saudita può essere letto come una mossa guidata dai pragmatici per alleggerire le pressioni e il peso dell’opposizione radicale.

Il coinvolgimento di Pechino è interessante perché accontenta gli animi più asiatici e orientalisti dell’élite iraniana, ma allo stesso tempo producendo una détente con Riad limita necessariamente le possibilità di azione dei Guardiani, soprattutto a livello di proxy regionali, perché occorre fornire quanto meno un’apparente affidabilità nei confronti di Pechino – che potrebbe aver messo sul tavolo anche investimenti come contraltare all’accountability politica.

Questo significa che quella seconda generazione, diventata più forte anche grazie ai rinnovati link con la Russia, potrebbe essere in parte controllata dalla prima governista. E quindi, ciò che accade racconta che si sta creando un processo di equilibrio dove un rovesciamento di potere o un cambio dello status quo non è gradito a grandi player, come la Cina e l’Arabia Saudita. E probabilmente adesso a Riad si preferisce questa via della distensione piuttosto che un sostegno più spregiudicato alle opposizioni – perché in fondo quello sarebbe una pericolosa alterazione di un (dis)equilibrio (con potenziali, rischiosi effetti regionali?).

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