Lo Sri Lanka apre all’India
Lo Sri Lanka apre agli investimenti indiani, come alternativa alla Cina. Il punto di vista di Guido Bolaffi
Lo Sri Lanka ai primi di maggio per allentare la soffocante presenza cinese sul paese ha stipulato un contratto di quasi mezzo miliardo di dollari con uno dei maggiori gruppi industriali indiani. Un accordo che segue di poche settimane quello siglato con una joint venture Indo-Russa per il controllo e la gestione del Mattala Rajapaksa International Airport (MRIA). Situato a 240 km dalla capitale Colombo e costruito, così come l’Hambantota Port distante 30 km, con i finanziamenti generosamente elargiti da alcuni istituti bancari cinesi.
Di questa inattesa ed inaspettata apertura all’India dava conto Munza Mushtaq nell’articolo Sri Lanka turns to India as counterbalance to Chinese presence, pubblicato dal quotidiano Nikkei dello 9 maggio scorso: “On Tuesday, the Sri Lanka government said it had approved a 20-year power purchase agreement with India’s Adani Green Energy, which will invest $ 442 million to develop two wind power stations in Mannar and Pooneryn in the north, totaling 484 megawatts. The agreement comes just weeks after the island nation awarded an Indian-Russian joint venture control of the once- dormant Mattala International Airport, built with Chinese funding, and sets the tone for geopolitical maneuvering”.
Vale forse la pena ricordare che l’aeroporto Mattala rappresenta uno dei più eclatanti esempi di altre “cattedrali nel deserto” edificate sull’isola, che gli atlanti geografici di un tempo definivano Ceylon, sulla spinta dei massicci crediti concessi per anni dai cinesi allo sciagurato Esecutivo dell’allora Presidente Rajapaksa. Il quale, prima di essere cacciato a furore di popolo nel marzo 2022, aveva consegnato il paese, mani e piedi, ai subdoli “aiuti allo sviluppo” del governo di Pechino. Indebitandolo fino alla soglia del default di cui ancor oggi, a distanza di due anni, esso paga le conseguenze.
Non a caso, notava il giornalista di Nikkei in un passaggio dell’articolo sopra indicato: “Analysts believe that the airport takeover by the Indian-Russian joint venture highlights deeper geopolitical ramification, especially amid China’s increasing influence in Sri Lanka until recently and India’s continuous attempts to assert its presence there. The airport lies less than 30 kilometers from the Hambantola Port, which was also built with Chinese funds and is now managed by China”.
Alla base della decisione del Presidente Ranil Wickremesinghe di aprire la malandata economia dello Sri Lanka agli investimenti stranieri, ed in particolare a quelli della vicina India, ci sono almeno due ragioni.
La prima: di allentare il “nodo scorsoio” del debito con Pechino, che invece, non a caso, persiste nel rallentare le procedure per la ristrutturazione del colossale debito estero di Colombo proposta nella primavera del 2023 dalle altre nazioni creditrici. Capeggiate dal Giappone d’intesa con Francia ed India.
Questione, questa, resa particolarmente delicata dal fatto che la ristrutturazione del debito era stato posta come sine qua non dal Fondo Monetario Internazionale per il versamento dei “$2.9 billion bailout package” stanziati a favore dello Sri Lanka a marzo 2023.
La seconda: visto che l’isola Sri Lanka, posta a cavallo tra il Mare d’Arabia ed il Golfo del Bengala controlla uno snodo strategico dell’Oceano Indiano, di ridare al governo del suo paese quantomeno un una parvenza di sovranità su infrastrutture di assoluto rilievo commerciale e militare ceduta “nei decenni Rajapaksa” ai cinesi.
Un ri-bilanciamento economico e politico tra Pechino e Delhi perorato a chiare lettere dall’esperto srilankese Rohan Masakorala, fondatore della Shipper’s Academy International: “The role of Sri Lanka and its strategi ports should be only to support and enable trade and ensure that the Indian Ocean remains for peaceful activities [...] Sr Lanka should avoid any involvement in taking sides, but it must work with all paetners. The best possible thing is to build briges between the global giants so that that trade take place instead of conflicts”.