Lo stallo in Mali, tra nostalgie del G5 Sahel e radicalizzazione dei Tuareg
L’attuale fragilità del Mali rischia di aumentare il grado di instabilità della regione. L’analisi di Alessandro Giuli
La fragilità del Mali resta al centro delle riflessioni geopolitiche occidentali come un fattore d’instabilità regionale crescente. Lo testimonia da ultimo l’espulsione, da parte della Giunta militare al potere a Bamako, del portavoce della missione Onu MINUSMA Olivier Salgado. Esperto di comunicazione e strategie di marketing di lungo corso alle Nazioni Unite, Salgado viene accusato di aver propalato “informazioni inaccettabili” sui 49 militari ivoriani (tecnicamente dei Caschi blu”) giunti il 10 luglio con un volo civile nell’aeroporto internazionale della capitale maliana e lì tratti in arresto. In realtà Salgado aveva semplicemente lasciato intendere che i militari della Giunta fossero stati avvertiti preventivamente del loro arrivo imminente (da fonti d’intelligence straniera, forse russi legati al Gruppo Wagner? Il retropensiero è questo). Tanto è bastato affinché, in un contesto di relazioni già molto tese tra il Mali e i suoi partner internazionali, il ministero degli Affari esteri e della cooperazione prendesse la decisione di espellere il portavoce.
Tutto ciò avviene proprio nel momento in cui il presidente del Niger, Mohamed Bazoum, assieme all’omologo del Ciad, Mahamat Idriss Deby, annuncia un imminente incontro con i leader di Burkina Faso e Mauritania per rilanciare l’azione di quel “G5 Sahel” concepito nel 2017 in chiave anti jihadista e di cui soltanto nel maggio scorso aveva certificato la “morte” in un’intervista al quotidiano francese La Croix. La missione, in gran parte finanziata dall'Unione Europea e sostenuta da una copertura militare francese, ha subìto numerose battute d’arresto culminate a maggio nel ritiro del Mali dal gruppo, con la conseguente smobilitazione dei contingenti regionali alleati (in realtà un mese prima già 1.200 soldati del Ciad avevano abbandonato la loro base in Niger per fare ritorno nottetempo a N’Djamena). Malgrado il sopraggiunto ottimismo di Bazoum – “Il nostro è un compito immenso… combatteremo” – ci s’interroga ora sulle possibilità operative di una struttura interstatale priva del Mali, il cui territorio è l'epicentro del conflitto in corso con il radicalismo islamista e i cui vertici sono indisponibili alla collaborazione dacché il Ciad, nel 2021, ha rifiutato di cedere la presidenza G5 Sahel a Bamako (il colonnello Assimi Goita ha esplicitamente accusato Parigi di aver interferito per provocare lo stallo e mantenere il proprio ruolo di protettorato sul nuovo governo golpista subentrato a N’Djamena). Per quanto sia giudicato ancora uno “strumento necessario” sia dai suoi componenti sia dall’Onu, il G5 Sahel attende di essere rimodellato in base a criteri che vadano oltre gli stanziamenti finanziari e il supporto logistico di cui hanno sin qui beneficiato i Paesi componenti, inquadrando l’organismo in una strategia di contenimento della sfera d’influenza russa che punti a mitigare i rapporti con il Mali rendendo “conveniente” a Goita un ripensamento.
Nel frattempo la Giunta maliana, così come la comunità internazionale intera, deve anche fare i conti con un inasprimento nei rapporti con i ribelli Tuareg del gruppo CMA (Coordination des mouvements de l’Azawad) che minacciano di misconoscere l’accordo di pace siglato ad Algeri nel 2015, denunciandone l’ineffettuale applicazione. I nazionalisti arabi, che si sono riuniti il 16 e 17 luglio scorsi, hanno anche sostituito il loro leader Bilal Ag Acherif con Alghabas Ag Intalla: una figura considerata troppo vicina ai fondamentalisti del GSIM (Groupe de soutien à l'islam et aux musulmans) per non destare inquietudini ulteriori e il sospetto che le rivendicazioni autonomistiche degli indipendentisti moderati possano saldarsi con le istanze fanatizzate dei Tuareg di obbedienza qaidista.