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Luci e ombre della Grande Muraglia Verde africana

La COP26 di Glasgow rilancia i progetti per contrastare la desertificazione in Africa. Ma i problemi principali del Sahel sembrano alimentarsi soprattutto nei vuoti strategici e geopolitici. Il punto di vista di Alessandro Giuli.

La questione ambientale dovrebbe offrire all’Occidente un’occasione per recuperare terreno nel grande gioco delle relazioni con il continente africano. Di là dalle buone intenzioni di facciata, l’appuntamento della COP26 di Glasgow rappresenta un palcoscenico operativo di rilievo, per rinnovare l’impegno sulla cosiddetta “Grande Muraglia Verde”, un progetto faraonico per arginare la desertificazione lungo un asse trasversale parallelo al Sahel lungo ottomila chilometri – dal Gambia all’Etiopia –, consistente nel ripristino di 100 milioni di ettari di terreni deperiti (10 milioni di ettari ogni anno da qui al 2030).

La Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha confermato l’impegno di Bruxelles, promettendo finanziamenti per 1 miliardo di euro a favore del Global Forests Finance Pledge (un quarto della somma verrà destinata al bacino del Congo).

Il capo dell’Eliseo, Emmanuel Macron, che già nel gennaio scorso aveva invocato un “colpo d’acceleratore” nel corso del One Planet Summit, è tornato sul tema in Scozia e lo ha fatto alla presenza di Jeff Bezos, patron di Amazon, come a sottolineare l’importanza e la necessità di un sostegno finanziario globale da parte del settore privato. Bezos ha assicurato che darà il buon esempio donando un miliardo di euro alla causa africana.

Il disegno in questione, nato nel 1952 dall’intuizione del biologo inglese Richard St. Barbe Baker e centrato sull’idea di una riforestazione progressiva delle zone agro-pastorali subsahariane, ha acquisito una fisionomia soltanto all’inizio del Terzo millennio, ma né l’Unione Africana, né i partner occidentali sono finora riusciti a ottenere i risultati sperati. A distanza di un ventennio, dacché nel 2007 la gestione dell’iniziativa era stata affidata all’Agenzia Panafricana della Grande Muraglia Verde di base in Mauritania (Nouakchott), soltanto il 15 per cento degli obiettivi possono dirsi raggiunti. Basti pensare come da ultimo sia stato impegnato appena il 48 per cento dei 19 miliardi di dollari stanziati un anno fa. Ora la Francia ha stabilito di mobilitare altre risorse, circa 600 milioni di euro per i prossimi cinque anni, lamentando però fra le cause principali del mancato successo sia l’instabilità politica del Sahel, sia la mancanza di un coordinamento uniforme. Di qui la proposta di uscire dal vecchio schema dei finanziamenti orizzontali, per concentrare le risorse sui progetti locali di ciascun Paese, stabilendo una “gerarchia dei bisogni” (in cima ci sono Burkina Faso, Mali e Niger) e collegandola alla qualità degli operatori locali impegnati.

Quanto alle classi dirigenti africane, le loro rivendicazioni sono rimaste strettamente legate alla delusione fin qui patita rispetto alle premesse. Ma qui e là si è affacciato anche un certo ottimismo. Alcuni esempi.

Il capo di Stato del Niger, Mohamed Bazoum, è intervenuto a Glasgow per sollecitare la creazione di un fondo speciale e rammentare l’urgenza di un intervento da parte degli Stati più ricchi nei confronti dei Paesi poveri come il nostro, che non hanno alcuna responsabilità per il cambiamento climatico [] quelli che oggi pagano il prezzo più alto al consumismo promosso da un modello di sviluppo che ha riservato pochissima attenzione ai popoli dei Paesi deboli, oltre che alle generazioni future”.

Il suo omologo in Mauritania, Mohamed Ould Cheikh El Ghazouani, ha inquadrato il tema nella cornice più ampia della riduzione dei gas serra (-11% rispetto al 2018 da qui al 2030) e della promozione di energie rinnovabili (dal 18% nel 2015 al 34% nel 2020) promettendo il raggiungimento della “neutralità carbonica” entro il 2030 con un tasso di rinnovabili del 50 per cento. “Questi risultati – ha aggiunto – saranno integrati dal lancio di un nuovo programma di sviluppo dell’idrogeno verde […] Grazie a questo nuovo settore, la Mauritania offre al mondo una fonte di energia pulita alternativa e sostenibile. Invitiamo le istituzioni finanziarie e le aziende interessate a sostenerci in questo progetto”.

Il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, ha annunciato che il suo Paese si appresta ad assumere “con ottimismo” la direzione della Conferenza dei Capi di Stato e di Governo dell’Agenzia Panafricana della Grande Muraglia Verde. Il collega della Repubblica Democratica del Congo (RDC), Félix Tshisekedi, ha più concretamente siglato un impegno decennale (2021-2031) con il premier britannico Boris Johnson, per proteggere la fascia forestale locale in un bacino da oltre 3,6 milioni di chilometri quadrati che attraversa sei Stati (Camerun, Centro Africa, Congo, Gabon, Guinea equatoriale e RDC) e rappresenta una riserva mondiale di biodiversità.

Ma per comprendere le difficoltà attuative dei propositi assunti prima, durante e dopo la COP26, si dovrebbe cogliere con realismo anche ciò che cova all’ombra degli irenismi internazionali, intorno al dovere di preservare gli “inestimabili servizi ecosistemici” (parole di Denis Sassou N'Guesso, Presidente della Repubblica del Congo) offerti dall’Africa al resto del mondo. Ovvero il fatto che, da una parte i Paesi africani procedono di fatto in ordine sparso – vedi il caso del Gabon che cerca di vendere cinque miliardi di dollari di crediti Co2 – e dall’altra, che tale attitudine trova conferma e incoraggiamento nell’assenza di una concreta regia continentale europea. Alla politica declamatoria della Commissione, in effetti, fa da controparte un’azione “parcellizzata” nei rivoli diplomatici delle singole Cancellerie, che difficilmente potrà contrastare la “strategia della presenza” ad ampio spettro messa in campo dal blocco orientale sino-russo. I massimi dirigenti di Mosca e Pechino - assenti alla COP26 di Glasgow, ma lieti di partecipare al coro della riforestazione, mentre restano fra i più riluttanti rispetto al processo di decarbonizzazione globale – in questo frangente hanno ben altro da offrire all’Africa in termini di welfare “neocoloniale”, assistenza sanitaria anti-pandemica e supporto logistico-militare nelle zone infestate dal jihadismo.

In estrema sintesi: i guai del Sahel non nascono dalla deforestazione, la quale semmai ne cronicizza la portata, ma si alimentano piuttosto di vuoti strategici geopolitici.

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