Ma non chiamatelo cambiamento: l’Africa di fronte alla prova del clima
Il legame tra climate change e conflitti in Africa è ancora talvolta compreso in maniera approssimativa. Oltre i temi dell’ecologia e dell’etica si staglia sullo sfondo la competizione tra grandi potenze.
L’analisi geopolitica del continente africano è caratterizzata da tanti (spesso troppi) luoghi comuni. La presenza di questi luoghi comuni è probabilmente alla base di una gran parte degli errori che si compiono quando si cerca di descrivere e trovare un senso ai macrofenomeni del continente, specialmente quello del cambiamento climatico. In termini di policy-making, negli ultimi 10 anni la principale preoccupazione che ha caratterizzato la valutazione dell’impatto del cambiamento climatico in Africa e in Medio Oriente è quella di una più o meno sostanziale connessione tra questo e i conflitti armati. Tuttavia, come ogni fenomeno geopolitico, anche il cambiamento climatico è oggetto di scontri di potere e come tale va valutato senza ricorrere a semplificazioni di sorta.
In primo luogo, occorre fare chiarezza sui concetti. L’uso dell’espressione “cambiamento climatico” a partire dall’inizio degli anni ‘90 ha avuto, almeno in parte, il fine di minimizzare, di rendere neutro l’impatto delle variazioni climatiche e, in un certo senso, di deresponsabilizzare alcuni degli stakeholder che, a volte in buona fede, erano responsabili della sua implementazione. In questo contesto, sarebbe più appropriato parlare, almeno in relazione alle conseguenze geopolitiche che il climate change produce nel continente, di deterioramento climatico per almeno due motivi. In primo luogo, è utile per rappresentare in maniera più precisa il tipo di variazioni che stanno influenzando le dinamiche geopolitiche in Africa come altrove. Uno degli assunti più presenti nel dibattito pubblico in merito alla relazione tra cambiamento climatico e conflitti, ad esempio, è quello della siccità. In virtù della quale la diminuzione della disponibilità delle risorse idriche porterebbe in maniera quasi automatica all’aumento dei conflitti. Tuttavia, se osserviamo i dati geografici, la realtà sul campo è assai diversa: ad esempio, ampie zone del Sahel non sono caratterizzate da siccità, visto che il livello annuo di piogge è restato pressoché uguale negli ultimi anni. Come riportato anche dall’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’ONU, i processi di variazione climatica hanno avuto un impatto abbastanza limitato in termini di disponibilità di risorse idriche, o comunque molto minore rispetto all’impatto che, ad esempio, l’aumento dei conflitti ha avuto sull’aumento dell’insicurezza alimentare. In questo contesto, quindi, ci rendiamo conto come la nozione di deterioramento, cioè di cambiamento in negativo rispetto al mero cambiamento climatico, sia più appropriata per capire cosa sta succedendo in Africa e i relativi impatti geopolitici.
Il concetto di deterioramento e la sua utilità diventano più evidenti se passiamo ad analizzare dei singoli casi studio, come, ad esempio, quello del Sahel. Secondo alcuni assunti, sarebbero la siccità e l’aumento demografico a favorire l’aumento della conflittualità nella regione, specialmente tra l’etnia Peul (prevalentemente nomade e dedita alla pastorizia) e quella Dogon (sedentaria e impegnata nell’agricoltura). Questa spiegazione meccanicistica tende però a non valutare i rapporti storici tra i gruppi, così come tende a sottovalutare la gestione politica da parte delle autorità locali dell’accesso alle risorse naturali, specialmente nelle aree rurali dei rispettivi paesi. Prendendo ad esempio il caso del Mali, nel corso dei secoli le singole comunità hanno sperimentato e implementato diversi metodi per la gestione condivisa dell’acqua, basati sulle rotazioni periodiche in base alle piogge. Questo tipo di divisione delle risorse ha quindi scongiurato, in diversi momenti storici, il ricorso alla violenza come mezzo per accedere alle risorse naturali. Il fatto che il deterioramento climatico abbia prodotto precipitazioni più violente in periodi di tempo più ristretti ha messo in crisi tale sistema spingendo le diverse comunità a contendersi l’accesso all’acqua. In questo contesto, l’emarginazione politica di alcune comunità come i Peul, unita a un sentimento di ostilità diffusa verso le autorità statali, percepite a torto o a ragione come corrotte e inefficienti, ha portato all’aggravamento dei conflitti regionali con i gruppi locali dello Stato Islamico ed Al-Qaeda, che esasperano tali sentimenti di ostilità per migliorare la loro capacità di reclutamento con, fin qui, ottimi risultati. Con le opportune differenze del caso, un meccanismo per molti aspetti analogo è all’opera in Somalia, con la carestia alimentata dall’assalto degli insorti alla logistica dei programmi umanitari, così come dal fenomeno degli sfollati, che colpisce prevalentemente le aree rurali impedendo ai contadini di seminare e raccogliere, alimentando le carestie che caratterizzano il Corno d’Africa. Come vediamo da questi brevi esempi, la correlazione meccanica tra cambiamento climatico e conflitti non è adatta per spiegare pienamente tutte le ramificazioni e le variegate origini dell’impatto del deterioramento del clima a livello geopolitico. Questo perché, come ogni fenomeno globale, anche questo è oggetto di scontro tra blocchi di potere, così come della competizione tra grandi potenze.
Già durante la COP27 di Glasgow sono emerse in maniera abbastanza perentoria le divisioni tra gli stati africani e il resto dei paesi presenti per la conferenza. Consci degli impatti evidenti, diffusi e immediati che il deterioramento climatico sta provocando nel proprio continente, i rappresentati degli stati africani avevano portato avanti richieste più nette dei loro omologhi europei ed asiatici. In primo luogo, avevano richiesto più fondi per lo studio del climate change e soprattutto delle politiche di aggiustamento che dovrebbero mitigarne gli effetti. Altro motivo di divisione tra le classi dirigenti africane e i loro omologhi durante la COP26 è stato il tema delle energie fossili, con le prime abbastanza coese nel chiedere un abbandono completo delle energie fossili (incluso il gas) e il resto dei partner orientati verso un approccio più gradualista sul tema. Ciò che è sempre più evidente, però, è come il problema del deterioramento climatico rappresenti un’ulteriore applicazione della competizione tra grandi potenze. In questo senso, la natura strettamente e intimamente geopolitica del deterioramento è stata messa implicitamente in evidenza dall’ultimo report dell’IPCC. Questa volta, infatti, oltre a produrre nuove evidenze sul cambiamento climatico nel continente, il panel ha messo in evidenza una serie di fattori che precedentemente erano stati sollevati in modo discontinuo. In primo luogo, l’assenza di apparecchiature adeguate allo studio delle variazioni climatiche in Africa impedisce agli studi compiuti fin qui di fornire dettagli aggiornati sulla natura e gli effetti dei cambiamenti. In secondo luogo, l’allocazione dei fondi per le ricerche è ancora scarsamente indirizzata verso l’Africa, e ciò impedisce alla comunità scientifica locale d’indirizzare le ricerche verso aree di ricerca che sarebbero maggiormente d’interesse per il continente. Infine, i tecnici delle Nazioni Unite hanno voluto sottolineare esplicitamente il divario esistente tra i fondi allocati dalle istituzioni africane e quelli dei partner esterni al continente. La ricerca sul deterioramento climatico in Africa, infatti, è spesso gestita da soggetti esterni e quindi oggetto di influenze interessate su come e cosa ricercare. In questo contesto, è difficile non cogliere una critica anche alla Cina. Nel corso dei decenni, Pechino ha spesso sottolineato la volontà di costruire una partnership sostenibile e lungimirante con il continente e bisognerà effettivamente valutare come il Dragone sarà disposto a reagire a questo tipo di critiche indirette, sapendo specialmente che combustibili fossili e scarsa ricerca sono antitetici all’idea di futuro che viene coltivata dalle élite locali.
Il deterioramento climatico, al di là della sua dimensione tecnico-scientifica, è un fenomeno politico, o meglio geopolitico. Fallire nel comprendere questo fattore vuol dire, fondamentalmente, non comprendere il tema. L’invasione russa dell’Ucraina ha contribuito a riavvicinare in ambito energetico l’Africa all’Europa, e soprattutto all’Italia, e vista la stretta interconnessione tra energia e clima, la nuova partnership con il continente non potrà prescindere dall’implementazione di un’alleanza euro-africana per il clima. Gli effetti geopolitici del deterioramento climatico saranno una delle principali sfide dell’Africa in questo primo scorcio di millennio. Se deve essere un partner, il continente non può essere lasciato da solo di fronte a questa prova.