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Maghreb e Sahel di fronte all’Eliseo 2.0 di Macron

Che cosa attendersi negli Stati del quadrante nord e subsahariano dopo la recente rielezione di Emmanuel Macron all’Eliseo? L’analisi di Alessandro Giuli

Che cosa attendersi negli Stati del quadrante nord e subsahariano dopo la recente rielezione di Emmanuel Macron all’Eliseo? La premessa è che esistono aspettative di vario genere su un cosiddetto macronismo 2.0, tale da marcare una discontinuità in politica interna – considerate le istanze elettorali inevase, trasversali e anti sistemiche, raggrumatesi intorno a Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon – ma anche un cambio di passo sul fronte delle relazioni internazionali. Non sfugge peraltro il quadro di riferimento globale segnato dal conflitto russo-ucraino, il cui arco di crisi investe l’Africa su vari livelli strategici; a cominciare da quello energetico.

Riconosciuta l’eccezionalità del caso libico, che terremo fuori contesto, il punto di partenza generale è la constatazione di movimenti per così dire altalenanti che hanno caratterizzato il rapporto di Parigi con Rabat, Algeri e Tunisi negli ultimi anni. Una delle prime sfide del presidente riconfermato sarà quella di avviare un percorso di riconciliazione con l’Algeria, dopo un lungo periodo nel quale la liturgia della memoria dello Stato maghrebino si è scontrata a vario grado con la rigidità della Francia post coloniale che – proprio per bocca di Macron – ha messo in dubbio l’esistenza stessa di una nazione algerina prima dell’indipendenza del 1962, denunciando il presidente Abdelmajid Tebboune come l’ostaggio di un “sistema politico-militare”. In questo senso, il lavoro del ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, negli ultimi mesi ha però offerto prove d’una certa disponibilità a riavviare un dialogo bilaterale finalizzato a una riconciliazione.

Quanto al Marocco, pienamente inserito nella cornice occidentale degli Accordi di Abramo, il discorso è più semplice: il possibile riconoscimento ufficiale della sovranità di Rabat sul Sahara conteso al Fronte Polisario dovrebbe fluidificare la posizione geostrategica della Francia rispetto al Regno di Mohammed VI. Cionondimeno da Macron ci si attende un ruolo di mediazione diplomatica non facile – la questione costituisce una materia incendiaria nei confronti di Algeri ed è all’origine della rottura diplomatica con la Spagna che si è allineata alla dottrina di Washington – eppure indispensabile, essendo peraltro la Francia al vertice (ne detiene la presidenza semestrale fino a giugno) di un’Unione europea che sul dossier Saharawi si è mossa finora in ordine sparso.

Ragionamento analogo si può fare circa la Tunisia, laddove la torsione autoritaria del capo di Stato Kaïs Saïed richiede anche uno sforzo di stabilizzazione da parte delle potenze impegnate nel Mediterraneo. Parigi continua a sollecitare un confronto aperto tra le parti in vista del referendum costituzionale di luglio, ma è decisamente lontana dalle tentazioni sanzionatorie esibite dal capo dell’eurodiplomazia Joseph Borrel e anzi prosegue nel lavoro di partenariato per sostenere l’economia tunisina sotto choc finanziario e la nascita di una nuova classe dirigente; come testimonia la sovvenzione di 4 milioni di euro appena giunta dall’Agenzia francese per lo sviluppo per la messa in opera d’un progetto di formazione scolastica ad ampio raggio.

Solito tasto dolente, invece, continua a rivelarsi la fascia saheliana. Qui la rottura consumatasi con il Mali si arricchisce progressivamente di microfratture difficili da ricomporsi. Bamako accusa Parigi di collusioni con i jihadisti e di “provocazioni mediatiche e intimidazioni” alimentate con “false immagini” per rispondere alla denuncia di aver aperto i confini e le basi militari del Paese al Gruppo Wagner. I contractor russi hanno rimpiazzato i militari francesi in disimpegno (come da annuncio di Macron del 17 febbraio) dalla base di Gossi, dove sarebbero stati ritrovati alcuni corpi senza vita sulla cui uccisione Francia e Mali stanno polemizzando duramente. Secondo Parigi i cadaveri (ripresi con l’uniforme indosso grazie a un drone) appartengono ai mercenari di Putin. Il colonnello Souleymane Dembele ha replicato che si tratta di una pattuglia maliana vittima d’un colpo d’artiglieria ben prima del ritiro francese e accusa la forza Barkane di essere più incline allo spionaggio che alla lotta contro i terroristi.

Se per Bamako resta fuori questione l’eventualità di procedere con qualsiasi inchiesta internazionale sul campo, anche la linea post-elettorale di Parigi resta immutata: il protagonismo russo in Mali, Sudan e nella Repubblica Centraficana rappresenta un pericolo in grado di ramificarsi in tutto il Continente (il Camerun, tradizionale alleato della Francia, ha da poco siglato un accordo di cooperazione con Mosca in materia di sicurezza), di fronte al quale l’Unione europea e l’Occidente intero saranno costretti a contrapporre una comune “dottrina dell’intransigenza” non rinviabile ma ancora da concertare.

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