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Medio Oriente: alla ricerca di una nuova stabilità

Con gli Accordi di Abramo si è aperta una stagione di maggior dialogo in Medio Oriente. USA e UE devono impegnarsi per favorire il raggiungimento di un equilibrio endogeno nella regione. Il punto di vista di Daniele Ruvinetti

“Il messaggio che desidero trasmettere ai leader degli Emirati Arabi Uniti e ai cittadini degli Emirati è che la collaborazione e l’amicizia reciproche sono naturali. Siamo vicini e cugini. Siamo i nipoti del Profeta Abramo”, ha detto il premier israeliano Naftali Bennett durante una storica visita ad Abu Dhabi a dicembre, aggiungendo che la firma degli accordi di Abramo “è la prova migliore che lo sviluppo delle relazioni bilaterali è un tesoro prezioso per noi e per l'intera regione”. In quell’occasione il principe ereditario Mohammed bin Zayed rilanciava: “le nuove relazioni stanno fornendo ‘stabilità’ al Medio Oriente”.

Le relazioni in questione sono quelle normalizzate dagli Accordi di Abramo, intesa formalizzata nell’agosto 2020 tra lo Stato ebraico e parte del mondo arabo e ora effettivamente operativa in modo più ampio e completo (con l’adesione di Sudan e Marocco e prima ancora del Bahrein). È indubbio che l’accordo rappresenti un fattore positivo all’interno della controversa eredità lasciata da Donald Trump in politica estera; altrettanto indubbio che esso sia cosa gradita a Joe Biden, il quale ha l’obiettivo strategico di costruire un Medio Oriente ordinato e di permettere agli Stati Uniti un controllo da remoto della regione, per potersi concentrare altrove – per esempio sull’Indo Pacifico.

Il raggiungimento di un equilibrio endogeno nella fascia che si allarga dal Medio Oriente fino al Nord Africa (che in Italia definiamo “Mediterraneo Allargato”) rappresenterebbe un elemento chiave per Washington, ma anche un valore aggiunto per l’Europa. L’area è di fatto ai confini dell’Unione; la sua stabilizzazione incide su dinamiche ampie come quelle collegate al terrorismo o alla transizione energetica, e risponde a un disimpegno da attività ad elevato coinvolgimento. Con gli Accordi di Abramo si è aperta – o, quanto meno, l’intesa ha coinciso con – una stagione di maggiore dialogo, che vede competitor e rivali come Emirati, Israele, Egitto, Iran, Turchia, Qatar e Arabia Saudita avviare diverse forme di contatto: la riconciliazione di Al Ula che ha riaperto le relazioni tra Qatar e Consiglio per la cooperazione del Golfo; il viaggio di bin Zayed in Turchia; le aperture emiratine all’Iran; il dialogo tra Ankara e Cairo sulla Libia; le parole di Recep Tayyp Erdogan su Israele, definito un attore chiave della regione con cui è necessario mantenere un rapporto proficuo (posizione sempre più condivisa a Riad come al Cairo). Si tratta di attività pragmatiche che cercano di sfruttare il momento guardando anche al generale interesse americano – ed europeo –, non dissimile a quello che ha la Cina, che fa dell’armonia win-win il motore delle sue attività all’estero, orientate a ricavarne il maggiore guadagno economico.

Se la spinta che si collega alla strategia americana ha fatto da booster, non vanno tenute in minor conto le volontà delle collettività mediorientali e nordafricane, le istanze socio-politiche e culturali che avevano dato vita alle Primavere arabe, le crepe aperte dalla pandemia. Gli Accordi di Abramo stanno stimolando la creazione di partnership economico-finanziarie, commerciali, tecnologiche, turistiche e culturali; anche i paesi che per ora non ne hanno formalizzato l’adesione stanno godendo del nuovo cambio di prospettiva che l’intesa ha generato. Un caso concreto è l’accordo tra Emirati, Israele e Giordania: firmato con la benedizione statunitense attraverso la presenza dell’inviato per il clima John Kerry, ruota attorno al più grande progetto di energia rinnovabile nella regione. Gli Emirati costruiranno in Giordania un impianto solare con il quale verrà fornita elettricità a Israele, e in cambio Israele costruirà un impianto di desalinizzazione per fornire acqua alla Giordania.

Non c’è solo geopolitica, dunque. O meglio: c’è la dimostrazione di come la geopolitica sia il fattore che più di tutti incide sulle capacità di sviluppo (economico, tecnologico e umano) di una regione. Qualcosa di ormai imprescindibile per i paesi dell’area, caratterizzati da una popolazione giovane che mira a un approccio pragmatico, che vuole vivere il proprio tempo e aspira ad essere parte del flusso evolutivo globale, abbandonando le paludi ideologiche che per molti anni hanno affossato tanto il Medio Oriente quanto il Nord Africa. L’intesa ha accertato quanto la creazione di un tessuto connettivo aperto, che in qualche modo lega i vari angoli della regione, sia un elemento sentito dalle popolazioni che vi abitano.

Sullo sfondo resta, infine, la questione palestinese, ridimensionata nel suo valore ideologico e nel peso militare. Questione che, però, ancora figura tra le criticità della regione, come le instabilità in Libia, in Tunisia e nelle aree prossimali del Sahel e del Corno d’Africa, o le relazioni con una parte dell’Iran che punta sull’ideologia per preservare i propri interessi, o il rallentamento delle vaccinazioni che può aggravare il rischio di permanenza della crisi pandemica. È davanti a quel generale aumento della responsabilità intra-regionale che paesi come l’Italia, istituzioni come l’Ue, potenze come gli Stati Uniti e strutture come l’Onu hanno tutto il dovere e l’interesse a mantenere in piedi il percorso di apertura e di balancing e ad evitare fenomeni – funesti e/o fisiologici – di destabilizzazione.

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