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Non solo Gaza, dal rapporto Trump-Israele dipende il futuro del Medio Oriente

Washington ha la responsabilità di gestire la relazioni con Tel Aviv per evitare che si creino disavanzi geopolitici che possono alterare un possibile ampio processo di rimodellamento della regione

Non è facile andare oltre all’annuncio di Donald Trump di trasformare la Striscia di Gaza nella “Riviera del Medio Oriente”. Non è facile superare quelle dichiarazioni anche e soprattutto per l'eco che hanno ricevuto nella regione. Tale progetto – che comporterebbe anche il trasferimento della popolazione gazawi verso Paesi confinanti come la Giordania e l’Egitto – dovrebbe forse essere co-finanziato dai ricchi stati del Golfo come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar, i quali, tuttavia, sono tra coloro che hanno bollato l’idea come una fantasia.

Nella regione si continua a pensare che l’unica soluzione percorribile sia il riconoscimento di uno Stato palestinese, un passo che faciliterebbe anche la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita. Questa posizione è sostenuta anche dall’Unione Europea, ribadita pure dall’Italia durante la recente visita a Tel Aviv del ministro degli Esteri e vicepremier, Antonio Tajani.

Fatta tale premessa, occorre allargare il ragionamento a quanto il valore dell’equilibrio tra Israele e Stati Uniti sia fondamentale per l’intera regione. Il piano di Trump, se realizzato, potrebbe andare a intaccare processi presenti e futuri. Basta pensare che Benjamin Netanyahu, appena tornato da Washington, si è reso protagonista di un’idea quanto meno particolare, arrivando a ipotizzare, durante un’intervista televisiva, la creazione di uno Stato palestinese all’interno del territorio dell’Arabia Saudita. Dichiarazione che ha scosso Riad, la cui replica – tramite uno statement pubblico – è stata piuttosto dura.

Trump ci sta (ri)abituando a una visione transazionale degli affari internazionali. Spesso lancia in aria dichiarazioni bruciando tappe e cercando di sparigliare le carte in tavola. L’innesco delle conseguenze più caoticizzate, delle reazioni immediate a certi slanci, è spesso un processo di transazione, appunto. Nel caso, esso potrebbe riguardare l’avvio di un progetto concreto per Gaza da parte dei Paesi arabi e di un coinvolgimento più convinto dell’Ue.

Tuttavia, il rischio sta proprio nella gestione di Israele. Washington ha in mano la responsabilità di condurre un progetto lineare, permettendo il mantenimento politico e culturale – in altre parole strategico – del framework generale degli Accordi di Abramo. L’intesa per normalizzare le relazioni dei big arabi (e dei non big) con Israele è stata proprio pensata da Trump con una visione strategica che punta al generale equilibrio regionale.

Se l’obiettivo è includere in questo quadro di distensione e normalizzazione anche l’Arabia Saudita, allora – stante le posizioni pubblicamente prese dai sauditi – occorre che quella gestione dell’equilibrio con Israele diventi più misurata. Il rischio non è solo alterare il piano del presente, dove si lavora ancora per rendere la tregua a Gaza più stabile e futuribile, ma anche quello interdipendente del futuro.

Questo perché ci sono potenze regionali e internazionali che scalpitano per vedere gli Stati Uniti perdere influenza, e dietro a certi slanci il rischio c’è. A cominciare dall’Iran, su cui Trump annuncia il ritorno della “massima pressione”, ma non esclude la possibilità di discussioni per un accordo sul nucleare, che ovviamente potrebbe invece azzerare quella pressione – a riprova di come tutto sia oggetto di transizione. Ma ci sono anche la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese che potrebbero valutare i propri calcoli.

Dal rapporto statunitense con Israele passa anche un altro grande equilibrio regionale, quello che coinvolge la Turchia. Qui è evidente che il dossier siriano assuma una certa rilevanza. Ankara è in grado di avere una relazione speciale con i nuovi ruler di Damasco e può farsi garante delle dinamiche interne al Paese soddisfacendo una necessità quasi esistenziale di Israele – che per anni ha colpito i trasferimenti di armi iraniane ai gruppi dell’Asse della Resistenza, presenti in Siria per puntellare il regime di Assad e attualmente sottocoperta.

Con la Turchia, la transazione trumpiana potrebbe riguardare il disimpegno americano dalla Siria – da rivendere a livello elettorale come un successo “America First”, dato che l’elettorato del repubblicano detesta gli impegni militari all’estero. In cambio di un conseguente via libero ai turchi per le operazioni contro i curdi e il controllo della porzione settentrionale siriana, ad Ankara potrebbe essere chiesta una distensione delle tesissime relazioni con Israele.

Anche queste sono state alterate dalla guerra israeliana a Gaza, con Recep Tayyp Erdogan che ha sfruttato questi mesi con l’intento di diventare il simbolo della difesa dei palestinesi. E però, in questo costante dare per avere, Washington non deve sbilanciarsi verso ciò che concede a Israele in termini di successi, ciò che darà alla Turchia in termini di libertà, ciò che può cedere ai Paesi arabi in termini di narrazione, ciò che serve con l’Iran sul piano della deterrenza, ciò che lo mantiene protetto sul quadro della competizione di potenza con Russia e Cina.

L’idea di superare l’annosa soluzione a due stati con uno slancio politico-imprenditoriale rischia, creando ulteriori disavanzi geopolitici, di alterare in definitiva un processo molto ampio che permetterebbe di rimodellare – probabilmente non risolvere, ma in qualche modo riequilibrare – le dinamiche regionali.

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