Nuova ondata di proteste in Siria: la restaurazione incompiuta di Bashar al-Assad?
In Siria, il continuo deterioramento del quadro economico e l’aumento dei prezzi dei beni di largo consumo sono alla base della nuova ondata di proteste anti-Assad. Il punto di Claudia De Martino
La guerra in Siria, scoppiata sull’onda delle Primavere arabe e dell’opposizione della società civile al Presidente Bashar al-Assad e trasformatasi nel 2012 in un conflitto civile internazionale con il coinvolgimento indiretto di potenze estere - come Inghilterra, Francia, Giordania, USA, Canada, Australia, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Iran (e nel 2015 anche della Federazione russa) -, non è mai cessata del tutto e ad oggi ha totalizzato 500.000 morti e 13 milioni di rifugiati, tra cui 6.6 milioni di sfollati interni. A fine 2022, dei quasi 7 milioni di rifugiati all’estero, solo 500.000 erano volontariamente rientrati in patria, mentre per la maggioranza il rimpatrio è una chimera dopo la riconferma al potere del Presidente Bashar, primo obiettivo delle proteste del 2012, attraverso due elezioni presidenziali plebiscitarie nel 2014 e nel 2021 e la sua solenne riammissione nella Lega araba al summit di Jeddah a maggio scorso.
Del resto, nemmeno il Presidente ne desidera veramente il ritorno in patria e ha reso tale volontà evidente attraverso la promulgazione del Decreto n.10 del 2 aprile 2018, che introduceva l’obbligo di registrare i propri titoli di proprietà presso le istituzioni locali nei due mesi successivi all’entrata in vigore della legge pena la confisca delle stesse da parte dello Stato: una misura formalmente finalizzata all’accelerazione nell’avvio di progetti di ricostruzione dei territori maggiormente martoriati dalla guerra ma informalmente diretta all’espropriazione di terreni privati, in particolare localizzati nelle zone urbane periferiche, di proprietà di quei rifugiati stabilmente residenti all’estero bollati come “nemici e traditori della patria”. Di fronte al riaccreditamento internazionale di un regime che esce gradualmente dall’isolamento, inoltre, una flebile opposizione siriana continua ad esistere ma, durante l’ultima riunione tenutasi a Ginevra sotto l’egida ONU lo scorso giugno, il comitato di negoziazione, erede del vecchio “Alto Comitato per le negoziazioni” istituito a Riyadh nel 2015 e raggruppante 36 differenti movimenti, sembra essersi arreso alla sopravvivenza del regime, con cui sono stati auspicati contatti diretti.
Bashar al-Assad gode, dunque, di un potere ormai incontrastato, non fosse che limitato alle aree riconquistate dal regime, da cui sono esclusi i governatorati del nord ormai spartiti tra Turchi e Curdi. Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, infatti, il regime perse a favore dei ribelli ampi tratti di territorio nella Siria settentrionale, soprattutto nei governatorati di Aleppo e Idlib e nell’area semidesertica ma petrolifera di Deir-ez-Zor, mentre l’area nord-orientale veniva rivendicata dalla minoranza curda come zona di autogoverno, meglio noto come autogoverno del Rojava e oggi come AANES (Syrian Kurdish-led Autonomous Administration of Northern and Eastern Syria). Tra i territori persi dal regime, quelli del nord-ovest -che includono piccoli villaggi come al-Bab, Azaz, Jarabulus, Rajo, Tal Abyad e Ras al-Ayn – sono stati strappati dalla Turchia ai Curdi attraverso tre differenti operazioni militari (“Scudi dell’Eufrate” nell’agosto 2016, “Ramo d’ulivo” nel gennaio 2018 e “Primavera di pace” nell’ottobre 2019) e fanno oggi parte di una “fascia di sicurezza” che comprende un’ampia zona transfrontaliera posta sotto il diretto controllo della Turchia e amministrata alla stregua di un’ accessoria provincia turca dipendente dal Governatorato di Gaziantep, seppur attraverso la nomina di un vicegovernatore regionale siriano.
L’AANES, invece, è uno stato federale di fatto autonomo che si stende a est del fiume Eufrate fino al fiume Tigri (attuale confine con l’Iraq) e comprende oggi l’ex governatorato di al-Hasakah, i territori riscattati dal controllo dell’ISIS e la zona interna del governatorato di Deir-ez-Zor, dove si trovano sia i maggiori giacimenti petroliferi siriani che le basi USA che ospitano i 900 soldati dell’ormai ridotto contingente americano. L’AANES dispone inoltre di un proprio esercito, le Forze Democratiche Siriane (SDF, Syrian Democratic Forces), un’organizzazione militare composta da circa 100.000 unità, le cui fila provengono a maggioranza dalle tribù arabe locali (circa 65.000 soldati) e in parte minore dalle Unità di Protezione del Popolo curde (Yekîneyên Parastina Gel, YPG) affiliate al PKK. Ed è proprio nelle zone autonome curde amministrate dall’AANES che si sono riaccese a settembre 2023 pericolose tensioni interne, dopo l’arresto di un capo arabo, Ahmed al-Khabil[1], capo della milizia locale di Deir-ez-Zor affiliata alle SDF, considerato colluso con il regime di Assad per indebolire l’autonomia curda. Tensioni che il regime di Assad ha voluto strumentalizzare come il riaccendersi del conflitto etnico sempre latente tra maggioranza araba e minoranza curda nel governatorato di Deir-ez-Zor al fine di fomentare le rivendicazioni di autonomia araba e il possibile ritorno alla Siria di quei territori, ma che invece i Curdi bollano come un atto di ordinaria insubordinazione militare da parte di alcune tribù arabe (la tribù Akaiadat, in primis) sobillate dal regime.
Tali scontri, costati complessivamente 90 morti, sono stati interpretati dalla leadership curda come un tentativo congiunto del Presidente Assad, delle milizie pro-iraniane e di quelle pro-turche, di rivedere i confini territoriali dell’autonomia federale curda usciti dalla guerra nel 2016 e solo lievemente rettificati a seguito dell’ultima operazione militare turca e della sconfitta definitiva dell’ISIS in Siria per mano dei Curdi nel marzo 2019 a seguito della conquista della loro ultima roccaforte a Baghuz. I Curdi denunciano infatti un pericoloso riallineamento tra Turchia e milizie pro-regime (al-Difa’ al-watani, la difesa della patria) in funzione anti-curda[2], che sarebbe teso a sobillare rivolte nella maggioranza araba residente nei territori dell’AANES con un doppio obiettivo: l’allargamento della zona cuscinetto turca a nord e la riconquista da parte del regime dei territori ricchi di pozzi petroliferi a est dell’Eufrate per impossessarsi della rendita petrolifera, oggi prevalentemente amministrata dai Curdi. Prova di questo coordinamento sarebbero i recenti attacchi sulle località di Manbij e Tell Tamer da parte di forze jihadiste pro-turche e le simultanee rivolte arabe a Deir-ez-Zor, la cui coincidenza non sarebbe casuale (si veda l’intervista concessa dal comandante delle SDF, Mazlum Kobane, al quotidiano al-Monitor, 7/9/2023)[3].
Tuttavia, nell’acuirsi delle tensioni coi Curdi, i critici del regime identificano anche un terzo interesse, quello di mettere a tacere e distogliere l’attenzione internazionale dalle proteste interne alla Siria, scoppiate a fine agosto contro la corruzione e il caro-vita ma anche a seguito di controverse scelte economiche operate dal regime per salvarsi dalla bancarotta[4] e dalla insanabile crisi in cui versa l’economia siriana, in piena contrazione (-5.5% del PIL nel 2023)[5] per effetto congiunto della guerra, della forte svalutazione della moneta (la lira siriana è scambiata attualmente a 13.000 dollari), dell’isolamento internazionale, della pandemia e del terremoto del febbraio scorso. In quest’ottica, il riavvicinamento con la Lega Araba sarebbe stato visto dalla leadership siriana come un disperato tentativo di ripristinare buone relazioni e ottenere prestiti dal Golfo, ma tale aspettativa sarebbe stata disattesa dall’incapacità (o dalla mancanza di volontà) del regime siriano di mantenere gli impegni presi in quella sede, ovvero l’onere di stemperare la produzione e il contrabbando di Captagon, una potentissima droga di ultima generazione che sta inondando Giordania, Turchia e Arabia Saudita (ma il cui mercato finale è rappresentato dall’Europa e il cui commercio illegale ammonta a 3.5 miliardi di dollari su un PIL totale che oscilla attualmente tra i 20 e i 30 miliardi, attestandosi come il primo prodotto di esportazione del regime), la promessa di riaccogliere almeno una piccola parte (1000 persone circa) dei rifugiati siriani ospitati in Giordania, il compito di limitare le attività clandestine delle milizie pro-iraniane e la strisciante sostituzione etnica di popolazione arabe con popolazioni sciite in alcune zone considerate “ribelli” al regime e infine l’apertura a riammettere i convogli umanitari ONU in un clima di leale collaborazione.
Il regime, tuttavia, non è stato in grado di dare seguito a nessuna delle richieste a cui i finanziamenti e gli aiuti del Golfo erano condizionati, e dunque a metà agosto (16 agosto 2023) il governo siriano si è trovato costretto a ordinare il rialzo del 50% del prezzo delle medicine per fronteggiare la forte penuria di valuta straniera e di materie prime, nello stesso momento in cui era confrontato alla necessità di raddoppiare i magri salari della pubblica amministrazione, pari a circa 11.60 euro al mese (200.000 lire siriane), pena la disgregazione delle istituzioni fondamentali dello Stato. Ciononostante, date le ridotte entrate dello Stato, l’incremento salariale nella pubblica amministrazione è stato finanziato tramite l’abolizione dei sussidi per la benzina, il cui prezzo sarebbe schizzato nell’arco di 24 ore. Un’impennata dei prezzi in un genere di largo consumo avvenuta in un contesto economico già fortemente compromesso e che, sommata ad un’inflazione galoppante fissa al 60% dovuta sia a monopoli interni nei trasporti e nelle reti di distribuzione che all’isolamento internazionale e alle sanzioni americane, avrebbe causato una nuova massiccia ondata di proteste nella popolazione.
La nuova ondata di manifestazioni di massa avrebbe avuto avvio il 20 agosto scorso toccando anche quelle aree finora rimaste fedeli al regime, come il governatorato di as-Suwayda a sud di Damasco e a maggioranza drusa e le città di Latakia e Tartous, poste sulla costa settentrionale del Mar Mediterraneo e a maggioranza alawita, e raggiungendo infine Daraa, antica roccaforte delle manifestazioni anti-regime nel 2011. Le tre aree, contraddistinte da una forte eterogeneità etnica e sociale, sarebbero però unite dalla volontà di opporsi al regime attraverso la costituzione di un nuovo gruppo, “il movimento del 10 Agosto”, articolato intorno alla resistenza pacifica e non settaria ma comunque orientato alla destituzione finale di Bashar al-Assad, considerato non più soltanto un criminale di guerra in riferimento al sistema interno di repressione e tortura perpetrato fino al 2011 e ai crimini commessi durante la guerra civile, ma anche l’emblema e il deleterio capostipite di un sistema predatorio delle risorse nazionali per di più privo di un progetto politico per il futuro del Paese. Il nuovo movimento di opposizione interna coniuga infatti sia storiche richieste politiche, come il rilascio dei 136.000 detenuti siriani (tra cui molti forse ormai dispersi) che rivendicazioni economiche, come miglioramenti salariali sostanziali (un livello stipendiale di almeno a 93 euro al mese) per i funzionari pubblici ridotti alla fame, scandendo slogan come “la Siria appartiene al suo popolo e non al partito Ba’ath”.
I numeri delle proteste ad oggi non sarebbero ancora importanti come nel 2011 e soprattutto non avrebbero ancora assunto una scala nazionale (hanno coinvolto le province settentrionali e meridionali, ma non ancora le aree centrali del Paese e la capitale Damasco), tuttavia, le manifestazioni di piazza perdurano da tre settimane e rappresentano un forte grattacapo per il regime, che si è sempre ritratto come il “protettore delle minoranze”, quelle stesse su cui si appuntava tradizionalmente il suo potere e da cui oggi è invece pubblicamente affrontato, andando a infliggere un ulteriore colpo alla narrativa ufficiale. Ad oggi le forze del regime hanno sparato sui manifestanti ad Aleppo e Daraa[6], ma non ancora a Suwayda, cercando piuttosto un accomodamento con il leader spirituale druso Hikmat al-Hijri e con i notabili locali[7], ma il regime in passato ha mostrato il suo volto più repressivo e questo costituisce un pericoloso precedente nel caso in cui le proteste dovessero continuare.
Gli Stati Uniti sono convinti che la crisi economica sommata all’isolamento internazionale imposto dalle sanzioni (ed in particolare dalla Legge Caesar del 2019 e dalla Legge anti-normalizzazione con Assad in via di discussione al Congresso per estendere le sanzioni attualmente in vigore al 2032), dalla crescente difficoltà dell’Iran di fornire aiuti economici e petrolio e dalla necessità della Russia di concentrare le sue risorse nella guerra in Ucraina, costringeranno nel medio periodo il regime a cedere e ottemperare alla Risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza ONU e alle richieste di riforma politica e costituzionale avanzate dall’opposizione. Nondimeno, il regime siriano non cederà finché i suoi alleati internazionali – Iran e Russia in primis – non lo abbandoneranno del tutto, indipendentemente dal prezzo sostenuto dalla sua popolazione e denunciato dai vari rapporti ONU sul Paese e dall’inviato speciale ONU Geir Pedersen, che ha dichiarato l’attuale frangente economico come il punto più basso toccato dal Paese dal 2011. Bashar al-Assad personalmente può difficilmente optare in un esilio dignitoso e potrebbe preferire piuttosto affondare, trascinando con sé tutta la Siria.
[1] Armenak Tokmajyan, “Torrid Times in Eastern Syria”, Diwan, Carnegie Middle East Center, 7/9/2023;
Jared Szuba, “Syria’s Kurds struggle to contain backlash after detaining allied Arab militia leader”, al-Monitor, 2/9/2023.
[2] Fabrice Balanche, “Iraq and Syria: Kurdish Autonomous Regions Under Threat”, Groupe d’études géopolitiques;
École normale supérieure, 4/3/2023; ANF news, 1/2/2021, «Difa al-Watani as a paramilitary criminal network».
[3] Amberin Zaman, “Syrian Kurdish commander Kobane acknowledges Arab grievances as tensions ease in Deir Ezzor”, 7/9/2023.
[4] Haid Haid, “Salary bumps fail to quell Syria protests over fuel price hikes”, al Majalla, 23/8/2023.
[5] Danny Maki, “Syria’s economic freefall continues despite Arab League return”, 16/8/2023, Middle East Institute.
[6] Institute for the Study of War, “Syria: Anti-Regime Protests Risk Crackdown”, 5/9/2023.
[7] Erik Yavorsky, “Syria’s New Protests Highlight Vulnerabilities in Assad’s Minority Base”, 8/9/2023, The Washington Institute for Near Eastern Policy.