Nuove speranze per il Libano
Il paese dei Cedri si trova di fronte a una possibile nuova stagione della sua politica interna e del suo agire internazionale. L’analisi di Anna Maria Cossiga.

L’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e la nomina di Nawaf Salam a primo ministro, nel gennaio scorso, potrebbero avere aperto una nuova stagione per il Libano, alla cui difficile situazione economica si è accompagnato un vuoto istituzionale che durava da più di due anni.
In modo paradossale, la vittoria di Aoun e la nomina di Salam sono avvenute anche con il “contributo”, se così possiamo definirlo, di Israele. Com’è noto, lo scorso settembre, centinaia di cercapersone appartenenti a membri di Hezbollah sono esplosi causando la morte dei miliziani, ma anche di numerosi di civili. A pochi giorni di distanza, le forze aeree dello stato ebraico hanno bombardato il quartier generale di Hezbollah a Beirut e nell’attacco è rimasto ucciso il leader storico del partito di Dio, Hassan Nasrallah. I bombardamenti dell’IAF, che sono continuati incessanti per mesi, hanno inoltre decimato la dirigenza di Hezbollah, limitando in modo significativo le capacità politiche e militari del movimento. È stata proprio la debolezza a livello politico che ha permesso l’elezione del presidente e, di conseguenza, la nomina del premier. Hezbollah ha perduto il diritto di veto sulle decisioni del governo, acquisito nel 2008 e che, in numerose occasioni, ha ostacolato il funzionamento del paese. Nonostante il notevole deterioramento delle proprie capacità, però, Hezbollah e il suo alleato sciita Amal hanno avuto la possibilità di nominare quattro dei nuovi 26 ministri, scelti secondo la distribuzione su base confessionale prevista dalla costituzione libanese.
Il “contributo” di Israele, tuttavia, è giunto del tutto involontariamente, com’è facile immaginare. Dall’8 ottobre 2023, quando Hezbollah ha deciso di schierarsi in aiuto dei “fratelli di Gaza”, gli attacchi reciproci tra il partito di Dio e lo stato ebraico sono stati incessanti e distruttivi per entrambe le parti. Poi, grazie alla mediazione degli Stati Uniti e della Francia, il 27 novembre dello scorso anno ha avuto inizio un cessate il fuoco, che avrebbe dovuto avere una durata di 60 giorni. L’accordo di tregua prevedeva il ritiro completo dell’IDF dal sud del Libano, e la sua sostituzione con le forze armate regolari di Beirut, il ritiro di Hezbollah a nord del fiume Litani e il suo completo disarmo. L’accordo prevede anche la piena implementazione della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, approvata nel 2006 per porre fine, anche allora, alle ostilità tra Hezbollah e Israele. La tregua ha tenuto, nonostante si siano verificati attacchi reciproci durante tutto il periodo e, prima della scadenza, è stata prolungata sino al 18 febbraio. Israele ha, infatti, dichiarato che l’esercito regolare libanese non si era ancora schierato del tutto nel sud del Libano e, di conseguenza, Hezbollah avrebbe potuto reinsediarsi nella zona.
Il 18 febbraio, l’IDF, dopo aver fatto richiesta di un’ulteriore proroga che non è stata concessa, si è infine ritirata, ma continua ad occupare cinque postazioni vicino al confine, considerate strategiche perché posizionate su alture che permettono il controllo di eventuali movimenti di Hezbollah. Nessuna fonte israeliana ha voluto precisare per quanto tempo le forze di Tzahal resteranno In Libano. La Francia, mediatrice dell’accordo di tregua, ha chiesto il ritiro immediato di Israele e anche gli Stati Uniti desiderano che la presenza dell’IDF abbia termine il prima possibile. Da parte libanese, il presidente Aoun ha vivacemente protestato, come anche il nuovo leader di Hezbollah, Naim Qassem, per il protrarsi di quella che considerano un’occupazione a tutti gli effetti, anche se sembra del tutto evidente che né il governo libanese, né Hezbollah sono in grado di continuare un’eventuale guerra. Il clima teso è peggiorato in occasione dei funerali di Nasrallah, che si sono tenuti a Beirut il 23 febbraio. Prima e durante le esequie, le forze aeree israeliane hanno bombardato il sud del Libano e parte della valle della Beqaa, mentre jet dell’IAF sorvolavano a bassa quota lo stadio dove si teneva la cerimonia funebre.
Questi ultimi avvenimenti, farebbero pensare che la lunga battaglia tra lo stato ebraico e Hezbollah ma anche, in modo più ampio, tra Tel Aviv e Beirut, non sia prossima alla fine. Il partito di Dio, in questo momento, è debole, come lo è il suo alleato di ferro, l’Iran. Anche la caduta di Bashar al-Assad non è stata certo una buona notizia per un movimento come quello sciita che, per decenni, ha dominato la scena militare e politica del Libano. La protratta presenza israeliana nel paese dei cedri, tuttavia, potrebbe giocare a suo favore, portandogli nuovi consensi da una popolazione che si ritrova, ancora una volta, sfollata e senza casa dopo i bombardamenti israeliani. Se Tel Aviv vuole, non diciamo la pace, ma un prolungamento indeterminato della tregua, forse dovrebbe rifletterci.
Molto dipenderà da ciò che il nuovo governo e il nuovo presidente del Libano riusciranno a fare per la ricostruzione, civile e materiale, del paese. Joseph Aoun e Nawaf Salam hanno un progetto ambizioso: attuare le riforme politiche ed economiche senza le quali il paese non potrà avere finanziamenti esteri; detenere il monopolio sul possesso di armi – un segnale chiaro per Hezbollah – e, dunque, riorganizzare l’esercito; far sì che “l’occupatore israeliano” lasci “ogni centimetro del paese”; prevenire future aggressioni.
Un paese stretto tra con un oppositore interno, Hezbollah, e un rivale esterno, Israele, dovrà mostrare non solo forza militare, ma anche capacità politica per navigare nel difficile assetto costituzionale e attuare le riforme. Servirà, inoltre, abilità diplomatica per mantenere i rapporti con i paesi già amici e crearne di nuovi, magari con una Siria anch’essa “nuova”. Vedremo, nei prossimi mesi, come il Libano farà i primi passi di una possibile nuova stagione. Tutto sommato, potrebbe farcela.