Perché la stabilizzazione in Libia è importante per l’Europa
Instabilità e insicurezza in Libia rappresentano un’incognita minacciosa sul Fianco Sud euro-atlantico. L’analisi di Daniele Ruvinetti
La recente visita della presidente del Consiglio Giorgia Meloni in Libia ha portato con sé un messaggio molto chiaro: nel Paese nordafricano non è più tollerabile la presenza di forze militari straniere. E la ragione è semplice e diretta: quelle unità armate hanno già prodotto, e in alcuni casi ancora producono, influenza politica, tendono a provocare interferenze sui processi interni e internazionali, specie quelli condotti dalle Nazioni Unite. In definitiva, sono forze destabilizzanti, pensate appositamente per questo genere di attività, visto che chi le sostiene ottiene vantaggi dalla destabilizzazione.
Se all'Ovest l'attenzione è posta sulla Turchia, che è però una realtà più prossima all'ordine internazionale basato sulle regole di ispirazione occidentale, anche se tuttavia orientata a sottolinearne incoerenze anche in modo antagonistico, il problema enorme persiste a Est. In Cirenaica – dove l'ordine locale è gestito da un governo fittizio subordinato al potere militare esercitato dalla Libyan National Army, la milizia che risponde a Khalifa Haftar e famiglia – la presenza delle forze russe resta consistente. Anzi, forse si è arricchita di ulteriore operatività, che non riguarda soltanto la Libia.
Dal 2017 ormai, Haftar ha un rapporto concordato con Mosca. Tanto che le unità della Wagner lo hanno assistito nel suo ambizioso piano di rovesciare il Governo di accordo nazionale che l'Onu aveva affidato a Fayez Serraj con l'intento di riunificare il Paese. Nel 2019, le forze haftariane avevano lanciato un assalto a Tripoli – dove Serraj era stato insediato anche grazie al lavoro diplomatico (e non solo) italiano – e i contractor russi lo avevano aiutato. Senza successo, va aggiunto, perché fu l'intervento in forze della Turchia a stoppare i miliziani dell'Est.
Anche se l'azione militare è finita e Haftar ha perso il sostegno militare che gli era stato offerto non solo dalla Russia, ma anche da altri attori regionali, le forze inviate da Mosca restano acquartierate in Cirenaica. La Wagner non esiste più dopo il tentativo di golpe di Yevegny Prigozhin, ma le attività sono state sostituite dai cosiddetti "Africa Corps" che, sotto il coordinamento delle strutture della Difesa, stanno usando la Libia come hub per le attività. E non solo in Nordafrica, ma in tutto il continente.
Ossia, la questione su cui il governo italiano sta lavorando assume valore strategico. E per questo Roma è tutt'altro che sola, ma totalmente supportata da Stati Uniti e Ue, in definitiva dalla Nato – perché di fatto stiamo parlando del destino del cosiddetto "Fianco Sud". La Russia, per esempio, potrebbe aver iniziato a usare il porto di Tobruk, e gli scali aerei di Bengasi, per gestire la logistica dei dispiegamenti in Africa, e questo conferisce a Mosca capacità operativa su tutto il continente – dalla Libia. Di più: se è vero, come noto, che la Russia sta cercando un secondo affaccio navale sul Mediterraneo oltre alla base siriana di Tartus, Tobruk potrebbe diventare tale se non si convince Haftar a mollare la presa e liberarsi dal vincolo di Mosca. A questo vanno aggiunte le voci su un possibile accordo russo nel caos di Khartoum per lo sfruttamento di un porto sudanese come affaccio nel Mar Rosso, e tanto basta per dipingere un quadro in evoluzione della presenza russa nel Mediterraneo allargato.
Il problema sul tavolo è molto complesso, perché certe dinamiche russo-libiche sono possibili solo per lo spazio che Haftar ha deciso di concedere ai russi, e dunque in definitiva si intrecciano con le complicate dinamiche intra-libiche. È per questo che la richiesta di mollare la Russia, con Haftar va bilanciata sul piano interno. Anche perché il capo miliziano di Bengasi è abituato a trattare al rialzo, come dimostra il viaggio a Mosca di questi giorni di uno dei figli – suo luogotenente e curatore degli interessi di famiglia, che come spesso accade in Libia coincidono con quelli del Paese. E d'altronde, il Cremlino è rapido a comprendere certe dinamiche, e promuove delle controfferte.
Per la Russia, che non ha mai di fatto alleggerito in modo consistente la presenza in Libia, nemmeno nei momenti più salienti dell'assalto in Ucraina, mostrarsi in pianta stabile nel Paese significa alimentare la penetrazione in Africa (con interessi di vario genere, come dimostrano gli accordi con le giunte golpiste saheliane, dove Mosca per altro può testare forme di cooperazione in ambienti terzi con Pechino). E dunque mantenere quella spina nel fianco meridionale della Nato. È anche per questo che il Cremlino, mesi fa, dopo la vicenda che ha coinvolto Prigozhin, si è subito premurata di fornire rassicurazioni agli interlocutori libici.
Nel pragmatismo che la gestione della situazione impone, è la dimensione strategica che deve essere tenuta sempre come riferimento. Questa gestione della Libia è guidata dalla realpolitik, molti degli attori interni hanno varie tipologie di problemi se vengono analizzati con la (giusta) lente occidentale. Ma la ricostruzione del Paese passa dai presenti, per ragioni di equilibri di forze, e soprattutto dall'esclusione di quelle forze che non mirano all'interesse collettivo, ma muovono certi attori per avanzare i propri scopi. Scopi che spesso finiscono per usare la Libia come proxy contro gli interessi generali occidentali. C'è dunque una causa superiore che porta al dialogo esteso nel Paese. In questo caso, quella causa si chiama "Russia": una realtà che è sempre più avversaria della stabilità dell'ordine democratico e che sta estendendo queste sue attività avverse su un'ampia gamma di domini e dimensioni geopolitiche.