Perché l’accordo di Camp David avrà effetti anche sul Mediterraneo allargato
Dai singoli dossier al più ampio approccio globale, Seul e Tokyo saranno attivi in Africa e Medio Oriente grazie a un più stretto rapporto con gli Stati Uniti e i partner occidentali. Il punto di Emanuele Rossi
Fino al 18 agosto 2023, Camp David era nota nel mondo per essere la località che i presidenti americani hanno storicamente usato per ospitare leader stranieri in un contesto più rilassato, ma non per questo meno operativo. Nel più famoso di questi eventi, l’ex presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, rimase nella tenuta nel Maryland – che di fatto è una base militare – per 13 giorni insieme ai leader di Israele ed Egitto, rispettivamente il primo ministro Menachem Begin e il presidente Anwar Sadat. Era il 1978 e con quegli accordi si sarebbe dovuto ottenere un Medio Oriente sempre complesso, ma parzialmente “riordinato”. Nonostante l’ostilità tra i due rivali regionali, i negoziati portarono a uno storico quadro di stabilizzazione e i due leader furono insigniti congiuntamente quell’anno del premio Nobel per la Pace.
Dal 18 agosto di quest’anno, Camp David è anche la location di un accordo che verrà studiato sui libri di storia per il suo valore globale: i Camp David Principles.
L’intesa ha portato il presidente Joe Biden a essere punto di giunzione tra Corea del Sud e Giappone, costruendo così le fondamenta per l’edificazione della Grand Strategy statunitense in Asia. Una struttura su cui si basano le alleanze regionali americane dell’Indo-Pacifico e che può diventare punto di aggancio di quelle occidentali in generale (esempio l’Unione Europea). Una situazione straordinaria se si pensa che Seul e Tokyo fino a non più di un anno fa manifestavano una sfiducia reciproca dettata da separazioni storiche e cicatrici derivanti dalla fase imperiale nipponica, che ancora bruciano in parte delle collettività, ma che l’intesa a tre potrebbe – nel tempo – cancellare per gli effetti benefici che questa distensione comporterà.
Immaginare questi effetti contingentati al rapporto dei tre alleati o ai loro diretti interessi è limitante. “I nostri paesi saranno più forti e il mondo sarà più sicuro se staremo insieme”, ha detto Biden. In parte certamente minore degli Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud sono ormai attori globali, che per altro in questo ultimo anno e mezzo hanno intrapreso una serie di attività molto più assertive verso occidente, orientandosi negli interessi in ballo nel Mediterraneo allargato e agganciando le loro attività internazionali a quelle dell’asse euro-atlantico. C’è una ragione dietro questo contesto temporale: quando il 24 febbraio 2022 Vladimir Putin ha ordinato l’invasione dell’Ucraina, questo ha generato un effetto – pratico e psicologico – in tutto il pianeta. E i like-minded occidentali, come vengono definiti Tokyo e Seul, hanno iniziato a percepire la necessità di manifestare più attenzione alle dinamiche internazionali, così come a quelle che riguardano aree geostrategiche diverse da quella di appartenenza.
Diplomatici di questi paesi, così come altri colleghi asiatici, hanno iniziato a interessarsi in modo pubblico – anche se senza mostrare troppo tracce ufficiali – dei destini di dossier come la Libia, il Sahel, la regione del Golfo oppure Suez. In alcuni di questi dossier hanno interessi diretti – l’approvvigionamento energetico è uno di questi, le rotte di risalita verso l’Europa un altro. Riguardo a certi altri, percepiscono semplicemente che sono ambienti caotici e problematici, potenziali hotspot di tensioni i cui effetti potrebbero riguardare direttamente loro oppure gli alleati, i partner e le aree di ambita influenza. Contemporaneamente, appunto, iniziano a valutare che uscendo dal “guscio” asiatico e adottando una strategia globale si possono creare opportunità di vario genere e valore.
Il Giappone si sta preparando per esempio a tenere una riunione dei ministri degli Esteri con i sei stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo in Arabia Saudita all’inizio di settembre. L’incontro ministeriale segue di un paio di mesi la visita di stato nella regione del Golfo del premier Fumio Kishida. Viaggio in cui Tokyo, tra le varie cose, ha potuto testare la disponibilità dei partner mediorientali – già primari fornitori di petrolio e GNL per l’Arcipelago – a partecipare ai progetti di carbon neutrality nipponici. Programmato per il 2050, questo ambizioso obiettivo prevede una strategia del ministero dell’Economia, del Commercio e dell’Industria (METI) che include il sostegno alle innovazioni per la riduzione del carbonio nei settori industriali. Ci si aspetta, inoltre, che l’idrogeno svolga un ruolo chiave nella transizione energetica pulita, per la quale il Giappone ha già messo a disposizione 19 miliardi di dollari e progetta investimenti specifici per 100 miliardi nei prossimi 15 anni. Dall’altra parte, i paesi arabi del Golfo sono ben posizionati per produrre idrogeno blu e verde competitivo e dispongono delle strutture portuali e delle altre infrastrutture necessarie per esportare tale bene. Secondo la valutazione dell’Agenzia internazionale per l’Energia, relativamente ai progetti di idrogeno annunciati a partire dalla fine del 2022, oltre all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti, l’Oman è tra i migliori candidati per la produzione e l’esportazione di idrogeno e potrebbe diventare il più grande esportatore di carburante in Medio Oriente in questo decennio.
E se c’è già (dal 2021) un memorandum di intesa tra la principale società di raffinerie in Giappone e il principale produttore di petrolio in Arabia Saudita per costruire una supply chain carbon-free basata sull’idrogeno, lo stesso genere di interesse ce l’ha la Corea del Sud. Seul ha già avviato l’approfondimento delle relazioni con il Golfo, attraverso la porta d’ingresso degli Emirati Arabi Uniti. Tre aziende sudcoreane hanno firmato a giugno un accordo per costruire un impianto di produzione di idrogeno verde e ammoniaca da 1 miliardo di dollari negli Emirati.
Abbinati a questi progetti incrociati, si creano altri spazi di cooperazione tra i tre e il resto del mondo. Corea del Sud e Giappone si trovano a un punto di svolta fondamentale per la diversificazione dei partner commerciali, poiché continuano a fare affidamento su un modello economico fortemente dipendente dalle esportazioni, con un’enorme concentrazione sulla Cina e sugli Stati Uniti come destinazioni principali di export. In tale contesto, il sud-est asiatico e la regione del Medio Oriente sono ancora più importanti per le loro economie come destinazioni alternative.
Sotto quest’ottica si aprono spazi incrociati: da un lato Seul e Tokyo possono rappresentare delle porte d’ingresso verso il Sudest asiatico, dove la loro presenza è integrata; dall’altro possono chiedere ai partner di fare lo stesso in Africa o in Medio Oriente. Ma mentre le relazioni nella regione del Golfo si approfondiscono con relativa fluidità, gli impegni nella regione complessa del Mediterraneo allargato non sono privi di potenziali rischi.
Per Corea del Sud e Giappone, alle prese con certe complessità, l’asse con Washington serve anche a trovare forme di appoggio in certi ambiti geostrategici. Entrambi i paesi asiatici hanno per esempio sofferto gli effetti della cavalcata del Califfato nel 2014-2015, quando soprattutto la Corea era cliente petrolifera anche di Baghdad e l’Iraq era per metà in mano ai terroristi. Anche a questo si legano le decisioni di partecipare attivamente a operazioni di sicurezza nella regione (qualcosa di più articolato e strategico della presenza della Corea del Sud con la Zaytun Division durante la Guerra d’Iraq). Sia il Giappone che la Corea del Sud sono state parte delle attività di Maritime Security nello Stretto di Hormuz e sembrano interessate ad allargare il raggio di azione regionale. Per esempio, ad aprile la fregata italiana Bergamini e il cacciatorpediniere giapponese Makinami si sono esercitati nelle acque del Golfo di Aden, dove la Marina è da tempo impegnata in operazioni antipirateria a sostengo del traffico marittimo.
La sicurezza marittima è tra le prerogative del Mediterraneo allargato e dell’Indo-Pacifico, così come la libera e aperta navigazione sono elementi cruciali per Seul e Tokyo (che con Shinzo Abe ha coniato il concetto di “Free and Open Indo Pacific” traslabile a ogni contesto marittimo complesso) e per la strategia (condivisa) da Stati Uniti e Unione Europea contro blocchi e coercizioni di attori rivali. Un elemento che accomuna i tre alleati di Camp David anche con il NATO Strategic Concept, che dà particolare attenzione alla Maritime Security. NATO che è un altro di quegli ambiti in cui Seul e Tokyo sono particolarmente impegnati e attivi come alleati like-minded. C’è tutto questo alla base dei Camp David Principles, tracciante geopolitico i cui effetti sono molto meno distanti di ciò che appare. La condivisione di obiettivi e interessi generali potrebbe, infatti, facilitare i tre nel muoversi in cooperazione in ambiti diversi da quelli specifici asiatici.