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Perché nemmeno le esecuzioni pubbliche fermano le proteste in Iran

Da mesi l’Iran è attraversato da manifestazioni anti-governative e la strategia messa in atto dal governo non sembra in grado di arginarle. L’analisi di Emanuele Rossi

Majid Reza Rahnawad era un wrestler professionista di 23 anni detenuto da poche settimane perché accusato di aver accoltellato due membri delle forze di sicurezza iraniane in uno scontro avvenuto durante una delle tante manifestazioni anti-governative che stanno squarciando il Paese da tre mesi. È stato giustiziato nei giorni scorsi, impiccato a una gru semovente, in pubblico, lungo una strada di Mashhad, città nel nord est, con un sacco che gli copriva la testa e con tanto di video diffuso nel tentativo evidente di incutere timore. È il secondo manifestante a subire una condanna a morte: prima di lui era toccato a Mohsen Shekari, anch’egli 23enne, sulla cui vicenda s’era alzata l’attenzione dei media internazionali al punto che alcuni governi (come quello italiano) avevano rilasciato dichiarazioni di denuncia rispetto a ciò che sta accadendo.

La teocrazia si “è chiusa”, è la definizione che molti analisti e studiosi usano per descrivere la reazione che la leadership iraniana ha scelto contro le proteste, scattate da settembre per reazione alla vicenda drammatica di Jîna Amini, la ragazza curda più nota col nome iranianizzato "Mahsa" morta mentre si trovava in custodia in una caserma della polizia morale di Teheran; arrestata perché non indossava correttamente il velo. Rahnawad e Shekari sono stati incolpati di moharebeh, un termine ampio e violentissimo che in farsi significa "fare la guerra a Dio" e definisce il senso di ciò che il regime iraniano intende trasmettere.

È in corso una battaglia di simboli: il velo è quello che ha fatto esplodere le proteste per la tragica morte di Mahsa, ma anche l’elemento che il regime aveva usato per avvolgere in qualche modo la presa sul controllo delle collettività – attraverso il rafforzamento delle leggi islamiche più rigide. La reazione dei cittadini dimostra che la sensazione che proveniva dalla Repubblica islamica da qualche tempo era reale: l’establishment, il sistema teocratico e i suoi gangli (comprese, e forse soprattutto, le incrostazioni del Sepâh, il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione che protegge la Guida Suprema), il governo sono detestati da una porzione consistente degli iraniani.

La strategia del terrore – le condanne terribili, le impiccagioni pubbliche che sembrano parte di un mondo distante secoli da quello attuale – non sta funzionando. Chi manifesta non si è fermato, perché percepisce che per dimensioni (estensione territoriale e temporale) queste proteste hanno qualcosa di storico. Se è vero che il regime sembra ancora stabile e in grado di resistere, è altrettanto vero che il rischio è enorme. Per quanto può essere represso il dissenso? Fin dove? E cosa succederà quando il dissenso diventerà ancora più violento e organizzato? Un recente sequestro di fucili, pistole e munizioni nel nord del Paese può essere indicativo della possibilità che i manifestanti si stanno armando? Davanti a questo, cosa potrà succedere?

Nel corso degli ultimi tre mesi il regime ha arrestato migliaia di persone (circa 14mila secondo le Nazioni Unite) e ne ha uccise diverse centinaia (si stima almeno 458, compresi 63 minorenni). La situazione si sta complicando e sta mostrando crepe interne al potere iraniano. Quelle due condanne a morte – con un processo considerato sommario quanto eccessiva la condanna – sono state criticate da alcuni chierici di Qom, città santa sciita a sud di Teheran, che hanno invitato la magistratura a non autorizzare altre esecuzioni (secondo Amnesty International ci sono altre 12 persone con accuse simili a quelle di Rahnawad e Shekari e dunque a rischio pena di morte, mentre altre nove sarebbero già state condannate).

È interessante che sia stata tirata in ballo la stessa magistratura che aveva cercato di sganciarsi dalle attività della cosiddetta "polizia morale", programma di sicurezza e controllo che sembrava essere stato chiuso, in realtà forse soltanto sospeso – o limitato nell’attività dopo che il procuratore generale aveva fatto una dichiarazione pubblica a proposito (o almeno che aveva fatto pensare a qualche passaggio a proposito).

La realtà raccontata da queste ultime evoluzioni è che le esecuzioni dimostrano come il regime iraniano non sappia come rispondere alle manifestazioni se non con la forza bruta. Ma il punto, come accennato, sta nel fatto che questo non scoraggia i manifestanti. Ciò che sta succedendo assume il peso di una battaglia storica e generazionale tra due forze ugualmente potenti (anche se non nella mera accezione militare) e potenzialmente inconciliabili. Da una parte c’è una cittadinanza prevalentemente giovane e desiderosa di cambiamenti, dall’altra la teocrazia che appare sempre più invecchiata mentre cerca disperatamente di restare aggrappata al potere.

Si è sviluppata una faglia probabilmente irreversibile tra Stato e società, tra chi governa e chi è governato, uno strappo al patto sociale che potrebbe essere "una potenziale campana a morto per un regime autoritario", come l’ha definita con un’immagine funzionale l’Editorial Board del Washington Post. Chi scende in strada – per manifestare, per opporsi alle autorità di sicurezza, per chiedere libertà – è consapevole dei rischi e sembra non aver bisogno dei tetri promemoria del regime.

Tuttavia è evidente che una parte consistente – e non stanca – del popolo iraniano vuole un Paese libero, aperto, laico e moderno. Lo vuole a costo di mettere a rischio la propria vita. Sentimenti e necessità spinte dal contesto socio-economico tutt’altro che brillante vissuto dall’Iran, che probabilmente sono ormai a un punto di non ritorno – d’altronde come tornare indietro a richieste così esistenziali e profonde?

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