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Quanto pesa il conflitto in Medio Oriente nella campagna elettorale americana?

Il conflitto esploso da poco più di un mese in Medio Oriente e le scelte di politica estera dell’amministrazione Biden dividono l’elettorato americano e sembrano poter pesare sui consensi in vista della corsa presidenziale. Il punto di vista di Stefano Marroni

Per Joe Biden e i democratici americani la guerra di Israele ad Hamas rischia di diventare una corsa sulle montagne russe. Stretta tra l’esigenza di stare la fianco del suo più solido alleato in Medio Oriente, e la consapevolezza che ogni giorno che passa la condotta dell’offensiva sferrata da Tsahal nella Striscia avvicina il punto di non ritorno con il mondo arabo, la Casa Bianca subisce anche negli Stati Uniti i contraccolpi dell’emozione suscitata dalle immagini di Gaza. In un crescendo di dati negativi sulle intenzioni di voto degli americani, che finisce paradossalmente per sommare lo scontento di chi pensa che Biden sia più attento alla politica estera che agli interessi dell’uomo della strada a quello di chi – i più radicali e i più giovani – imputa al presidente di essersi appiattito su Israele. Un paradosso che fa dire a John Della Volpe – il sondaggista della Harvard Kennedy School che lavorò per lui nel 2020 – che stavolta “Biden è nei guai: la coalizione che lo ha eletto si sta sgretolando”.

A metà settembre, un sondaggio condotto da Abc/FiveThirtyEight aveva fatto suonare un primo campanello di allarme, piazzando Trump in testa con un vantaggio attorno ai dieci punti su Biden. Ma in quel contesto – mentre si sviluppava l’offensiva diplomatica per sugellare una storica intesa sulla sicurezza con l’Arabia Saudita – quei dati sono stati letti come un “probabile artificio statistico” persino dagli autori della ricerca. Anche se chi prepara la campagna di Biden ha iniziato subito a stringere i bulloni di un piano di comunicazione pensato per convincere gli americani che la sensazione di un problema nella gestione dell’economia fosse – appunto – una falsa percezione. E che fosse soprattutto colpa del blocco repubblicano alla Camera dei Rappresentanti se anche il controllo delle frontiere stesse facendo acqua.

Poi il 7 ottobre, con la clamorosa e sanguinaria incursione di Hamas in Israele, le cose si sono messe in moto molto più velocemente, in uno scenario che lunedì scorso ha spinto il politologo David Axelrod – a suo tempo uno dei più influenti consiglieri di Barak Obama – a postare un tweet su X esplicitamente allusivo alla possibilità di un passo indietro di Biden: “E’ molto tardi per cambiare cavallo. Solo il presidente può decidere se sarà lui o no il candidato democratico. Ma deve decidere quale sia la cosa più saggia. Deve decidere se questo sia nel SUO interesse o in quello del paese”.

Il siluro di Axelrod è arrivato poche ore dopo la pubblicazione sul New York Times di un sondaggio che ha fatto il giro del mondo, fotografando una prospettiva catastrofica per il Commander-In-Chief. Non solo per il dato in sé, che lo vede distaccato di molti punti da Donald Trump in tutti e sei gli swing states che nel 2020 gli regalarono la Casa Bianca, decidendo la sfida con un margine tra l’uno e il 3 per cento. Ma soprattutto perché a franare sembra essere il suo sostegno in due dei tre gruppi che nelle analisi degli esperti resero possibile la sua risicata vittoria di tre anni fa.

Il 22 per cento degli elettori neri hanno dichiarato di voler votare Trump il prossimo anno, contro il 71 che ancora sceglie Biden: uno shock, perché nel 2020 “the Donald” conquistò solo l’8 per cento del loro voto, e negli ultimi cinquant’anni nessun candidato repubblicano ha superato la soglia del 12 per cento del voto nero. Ma a mancare all’appello per i democratici potrebbe essere in ancora maggior misura la mobilitazione dei giovani, dei millennials e dei ragazzi della “Z Generation” che in queste settimane nei college e nelle città hanno gonfiato le manifestazioni di condanna per i bombardamenti e poi per l’invasione di Gaza, mettendo nel mirino il sostegno “acritico” della Casa Bianca ad Israele. Nel Michigan e in altri stati della Rust Belt in cui le comunità arabo-americane sono numerose, basterebbe che anche solo poche decine di migliaia di loro disertino le urne per segnare definitivamente il destino della corsa di Biden.

Restano per ora fedeli al candidato democratico soprattutto le donne, mobilitate dalla prospettiva di una nuova stretta sui diritti civili e in primis sull’aborto, una vera mina sotto le ambizioni di rivincita del Gop, e non a caso un tema su cui Donald Trump sta bene attento a non esporsi come Ron De Santis o altri falchi repubblicani. C’è soprattutto la loro mobilitazione dietro le sorprendenti, vistose vittorie dei democratici in molte delle elezioni di martedì scorso: che in Ohio ha visto vincere i sì nei referendum per l’interruzione di gravidanza e la legalizzazione della cannabis, nel “rosso” Kentucky ha confermato a sorpresa il governatore democratico Andy Beasher, e infine il successo di candidati dell’Asinello in una varietà di competizioni in Virginia e altrove. Una vera boccata d’aria, ha scritto Politico, nel “clima cupo da giorno del giudizio” che regna in casa democratica, e un dato che ha offerto il destro ai sostenitori di Biden per dire che “gli elettori votano, e i sondaggi no”.

A raffreddare gli ottimisti hanno pensato in diretta non solo i dati di un nuovo sondaggio nazionale commissionato dalla Cnn, che ha dato Trump in testa di dieci punti a livello nazionale. Ma anche gli exit poll sugli stessi elettori che avevano appena decretato nelle urne le vittorie democratiche. In Ohio, il dato sull’approvazione di Biden (39 per cento) è stato appena superiore a quello nazionale, che per i sondaggisti di FiveThirtyEight è sceso nell’ultimo mese al 38.7: e solo un misero 25 per cento si è detto favorevole alla sua rielezione. Per lo staff di Biden, insomma – riferiscono i media americani - è arrivato il momento di ripensare ad ampio raggio la strategia elettorale, fondata fin qui soprattutto sull’idea di poter contare su una rendita di posizione legata all’impopolarità di Trump (che resta altissima, con un giudizio sfavorevole di quasi il 55 per cento degli americani) e sull‘idea che la guerra attesa in casa repubblicana sulla nomination facesse il “lavoro sporco”, rendendo inutile marcare le differenze con il suo predecessore.

Trump in realtà si è rapidamente sbarazzato dei contendenti nel GOP e a sorpresa è stato paradossalmente rilanciato dalle inchieste sul suo conto, riuscendo nonostante numerosi scivoloni dialettici ed evidenti buchi di memoria a farsi percepire in questa singolare corsa tra ottantenni come “più giovane” di Biden anche al di là dei fedelissimi della cosiddetta “area MAGA” (da “Make America Great Again”). Dalla sua, ha scoperto Biden, Trump ha l’antico e sempre riaffiorante isolazionismo americano, sfidato dal “troppo” protagonismo degli Usa di Biden in scenari lontani come l’Ucraina o ingovernabili come il Medio Oriente. Così, a poco a poco, pressata dai governi arabi amici, l’amministrazione ha alzato la voce con Zelensky e con Gerusalemme, facendo dire negli ultimi giorni dei no significativi a Binyamin Netanyahu dal segretario di Stato Blinken e dai vertici militari, mentre il presidente si spendeva in pubblico soprattutto nel valorizzare i risultati della “Bidenomics”. Ma ancora giovedì, a Chicago per parlare della difesa dei posti di lavoro e della soluzione della vertenza della UAW con le case automobilistiche, Biden si è visto circondato da migliaia di manifestanti democratici indignati per Gaza: “Joe Biden ce ne ricorderemo/il prossimo novembre non ti voteremo”.

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