Sahel, tra cambiamenti climatici e insicurezza
I cambiamenti climatici stanno sottraendo terra per pastorizia e agricoltura ed esacerbando divisioni etniche e turbolenze interne. Davanti allo scontento, agisce la propaganda terroristica. L'analisi di Emanuele Rossi
Se c’è un luogo al mondo dove i cambiamenti climatici si legano a problematiche securitarie, acuendone effetti e conseguenze, quello probabilmente è il Sahel. Il confine dell’Africa con l’Europa ha una centralità geopolitica determinante, ospita oltre cento milioni di persone, è un territorio intrappolato dal deserto dove gli effetti del global warming sono impietosi e dove attecchiscono i gruppi armati di varia origine. Non ultimi quelli collegati ad al Qaeda oppure al terrorismo baghdadista che ha ispirato il fu Stato islamico, che si porta dietro un’agile capacità di propaganda. Abile nel creare proselitismo sfruttando debolezze dei contesti socio-culturali e politico-economici più fragili.
Oggetto di numerose campagne di contro-insorgenza terroristica dai primi anni duemila a oggi – guidate da Stati Uniti, Francia e Unione Europea – il Sahel è in una pericolosissima deriva. La diffusione dei gruppi armati (alcuni legati ad attività di criminalità in osmosi con quelle jihadiste, alla faccia delle incoerenze ideologiche) è preoccupante. Si somma infatti a un contesto istituzionale debole: tre dei sei Paesi della regione, Ciad, Burkina Faso e Mali, hanno subito rovesciamenti istituzionali negli ultimi tre anni. Le condizioni generale di vita sono in deperimento. L’aspetto insicurezza che blocca tentativi di sviluppo. L’inesorabilità del cambiamento climatico complica il quadro.
Mentre le azioni dei gruppi hanno prodotto migliaia di vittime e almeno 2,5 milioni di rifugiati interni, le previsioni sui cambiamenti climatici indicano che l'aumento delle temperature e la maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi continueranno a colpire la regione del Sahel più duramente di altre parti del mondo. In passato, le popolazioni che abitano la regione si sono adattate in vari modi alle difficoltà ambientali, ma la confluenza di fattori economici, politici e sociali in evoluzione, unito all'impeto degli effetti del clima (dalla siccità agli eventi meteorici fiori controllo), presenta nuovi rischi.
Davanti alla carenza di acqua, alla distruzione dei raccolti, alle difficoltà di trovare pascoli per i gregge, l’aumento dei prezzi del cibo e dell’insicurezza alimentare, la resilienza delle popolazioni locali è messa a dura prova. E tutto avviene in un contesto in cui la disinformazione si diffonde per interesse strategico – sia dei gruppi combattenti che di attori esterni come il Wagner Group russo, interessato a difendere gli interessi anti-occidentali di Mosca attraverso partnership nella regione.
Questi sviluppi si aggiungono a quella palpabile e crescente diffidenza nei confronti delle autorità statali da parte di comunità locali diffuse in tutta la regione come i Fulani, che considerano le istituzioni estranee, parziali e incapaci di risolvere equamente le controversie comunitarie. Si sentono isolati, vessati: sono facili vittime di propaganda e predicazione. Tensioni riguardanti lo sfruttamento delle terra e delle risorse locali, dell’impatto della crescita demografica, che le dinamiche connesse al cambiamento hanno acuito, creano terreno particolarmente fertile per il reclutamento dei gruppi jihadisti di varia natura tra le comunità di pastori, per lo più musulmani, come l'etnia Fulani.
I fulani sono una popolazione ex nomade e oggi per gran parte sedentarizzata, diffusa nella savana dell’Africa occidentale. Parlano una loro lunga, il fulfulde (dove “fulbe”, da cui “fulani”, significa “libero”), sono pastori e agricoltori dediti al commercio, presenti come minoranza in una quindicina di stati fino al Mar Rosso e all’Africa sudorientale, ma principalmente concentrati in Nigeria, Niger, Mali, Guinea, Camerun e Senegal. Sono musulmani, tra il 18esimo e il 19esimo secolo raggiunsero un apice dell’espansione controllando territori teocratici centralizzati, successivamente spazzati via dalla colonizzazioni.
Alcuni Fulani hanno anche recentemente stretto accordi con gruppi jihadisti per poter far pascolare il proprio bestiame in aree protette come i parchi nazionali. È il caso di ciò che avviene per esempio nel W-Arly-Pendjari, noto anche come Complesso WAP, sito transfrontaliero patrimonio naturale mondiale dell’Unesco, che si trova tra Benin, Burkina Faso e Niger. Nel sud dello Stato di Kaduna, nella Nigeria centrale, una delle zone più colpite dalle attività delle milizie fulani, più di 800 uomini, donne e bambini sono già stati uccisi negli ultimi tre anni, e oltre 10.000 sono fuggiti dalle loro case. Nell’area è presente una competizione inter-jihadista tra Boko Haram e Provincia dell'Africa occidentale dello Stato Islamico (nota come Iswap): due grandi gruppi che si contendono i proseliti.
Benin e Nigeria sono due Paesi in eteropia con la facies saheliana, ma vivono destini di carattere geopolitico interconnessi a causa delle evoluzioni della regione. Le radici della questione dei fulani si sommano con rinnovate esigenze e pragmatismo, ideologie e propagande. La capacità della narrazione jihadista di far leva sulle faglie etnico-sociali si abbina attualmente alle carenze naturali spinte dai cambiamenti climatici. Nell’area saheliana l’assenza di risorse ha storicamente prodotto conflitti intercomunitari, esacerbando tensioni etniche preesistenti tra comunità fulani, dogon, tuareg o bambara. L’inserimento della predicazione jihadista in questi contesti ha già alimentato le lotte per l’accesso alle sempre più esigue risorse naturali.
Come gruppi fulani hanno svolto un ruolo significativo nelle jihad sufi scoppiate in Africa occidentale nel XVIII e XIX secolo, individui del gruppo etnico continuano a svolgere ruoli influenti in alcuni dei movimenti jihadisti salafiti prevalenti oggi nella regione. Inseriti anche col fine di creare esempi per reclutare altri individui. Le milizie Fulani si muovono anche indipendentemente però, e stanno prendendo di mira le comunità non musulmane, in particolare i cristiani; stanno attaccando intere comunità più isolate e individui più vulnerabili, compresi uomini e donne che lavorano nei campi. Cercano terra — spesso mangiata dal clima. Si muovono per indottrinamento ma anche per forme brutali di necessità e convenienza: accordi con i vari gruppi armati garantiscono alle comunità di pastori di essere protette e di poter sfruttare parte dei territori controllati.
Divisi in centinaia di clan con molti lignaggi diversi, degli svariati milioni di persone che compongono l’etnia fulani, tuttavia occorre sottolinea che soltanto piccole aliquote hanno visioni estremiste. La maggioranza ha sempre preso le distanze dalle attività combattenti. Ma il rischio è che un cambiamento così forzato del contesto come quello legato alle dinamiche naturali (il clima) induca a più spinte radicalizzazioni. Con un ulteriore effetto: le equivalenze tra Fulani e jihad, già diffuse, hanno alimentato pregiudizi e azioni contro civili innocenti basati sull'identità etnica. Queste a loro volta generano risentimento e rancore a cui i jihadisti possono attingere ulteriormente nel tentativo di reclutare nuovi combattenti.
Nel Sahel, regione strategica nel continente africano e fondamentale per la sicurezza del Mediterraneo, le dinamiche che legano insicurezza e cambiamenti climatici sono sempre più diffuse e complesse. Interessano popolazioni ed etnie differenti, esacerbando conflitti e tensioni spesso già esistenti, alimentati soprattutto dalla lotta per la sopravvivenza. Nei prossimi anni, l’esplosione demografica dei paesi di questa regione insieme ai cambiamenti ambientali in corso, potranno rappresentare una seria sfida per la sicurezza di tutto il continente, con riverberi possibili anche sui paesi europei. I processi di radicalizzazione jihadista, legati spesso ad attività criminali, sono una parte, importante di questo problema. Considerato il numero di attentati terroristici avvenuti anche nel corso del 2022, certamente rappresentano un fenomeno in crescita da non sottovalutare.