Salgono le tensioni in Bangladesh
In Bangladesh non si arrestano gli scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti che chiedono le dimissioni del governo. L’analisi di Guido Bolaffi
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Il Bangladesh è nella tormenta, per i sanguinosi scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti anti governativi che da settimane scuotono le sue giovani ma fragili istituzioni, già sotto pressione per l’ondata di scioperi dei lavoratori dell’abbigliamento, perno decisivo dell’industria nazionale, che chiedono aumenti salariali.
Un crescendo di disordini, con morti e feriti, seguìto al duro, e autoritario, rifiuto del Premier Sheikh Hasina alla richiesta della piazza - capeggiata dal Bangladesh National Party (BNP) in alleanza con quello del Bangladesh Jamaat-e-Islami - di dimissioni del governo e dell’insediamento di un esecutivo “di garanzia” per sovrintendere al corretto svolgimento delle elezioni generali del prossimo mese di gennaio.
Una situazione ben fotografata dal Financial Times nell’articolo Bangladesh PM pins re-election hopes on big projects: “The government has also embarked on a crackdown that analysts warn could sway the outcome of the January polls. At stake, they say, is Bangladesh’s young democracy as well as its hard-won economic progress”.
Economic progress esaltati anche da Indian Express che già nel 2022, commentando il felice Vertice di Delhi tra il Premier del Bangladesh Hasina e il suo omologo indiano Modi, affermava: “If one looks at the growth of gross Domestic Product (GDP) Bangladesh continues to post very impressive numbers. For one, unlike many countries including India that saw their GDP contract in 2020 following the Covid-19 pandemic, the country of Bangladesh actually grew during this period. Its GDP grew 3,4% in 2020, by 6,9% in 2021, and it is expected to grow by 7,2% in 2022”.
Tanto è vero che secondo il recente articolo di Nikkei Bangladesh makes grade for $681m from IMF but tougher test awaits: “Bangladesh cleared its first review under an International Monetary Fund loan program [...] The IMF appears to have a lenient stance toward Bangladesh this time, with local officials saying that it also agreed to extend the time frame for certain high urgency reforms until after the next national election expected in January”.
La verità è che il Bangladesh - terzo paese più popoloso dell’Asia meridionale ed ottavo nella classifica demografica mondiale - si trova oggi a dover fare i conti con una situazione assai complicata e per molti aspetti paradossale per uno dei paesi fino a ieri tra i più poveri del Pianeta: essere riuscito a raggiungere importanti traguardi economici a spese di quelle che, viste con gli occhi dell’Occidente, sono le libertà democratiche e politiche.
Una contraddizione tra progresso dell’economia e crisi della democrazia per altro già evidenziata dal sondaggio d’opinione condotto ad agosto scorso dall’Asia Foundation. Che intervistando un campione rappresentativo di cittadini aveva appunto riscontrato: “Most respondents called the $3.6 billion Padma Bridge which opened last year the most important success in Bangladesh [but] only 25 per cent thought the country is heading in the right direction”.
Ecco perché, secondo lo studioso Ali Riaz dell’università americana dell’Illinois, in assenza di un controllore super partes - così come richiesto a gran voce dall’opposizione ma aspramente rifiutato dal governo - capace di certificare il regolare svolgimento delle prossime elezioni, “As for domestic politics of Bangladesh it will crossing the Rubicon and becoming one-party autocracy like Cambodia”.
Salvo che, faceva presente al suo intervistatore M. Humayun Kabir, ex ambasciatore del Bangladesh a Washington e oggi Presidente del Bangladesh Enterprise Institute: “A third party may be needed to mediate and resolve the stalemate [but] the question is who will be the third actor. Our experiences say intervention from abroad does not bring any significant solution, I can only tell the risks are now multiplying and that will affect us as a nation”.
Infatti, il Dipartimento di Stato USA resosi conto delle rischiose conseguenze dell’accesa, furibonda reazione del governo di Dhaka alla perentoria sollecitazione di apertura alle richieste dell’opposizione fatta dal suo ambasciatore Peter Haas - bollata da Sheikh Hasina come un’indebita intromissione negli affari interni del paese - ha cercato di calmare le acque. Dichiarando, per bocca del suo portavoce ufficiale Matthew Miller, che “The United States is committed to supporting free and fair elections in Bangladesh that are carried out in a peaceful manner”.
Il carattere chiaramente distensivo del messaggio inviato al governo di Dhaka da quello di Washington ha trovato un’ulteriore, indiretta conferma nel singolare Post Scriptum comparso su Foreign Policy a piè di pagina della rubrica South Asia Brief dell’1 novembre scorso: “The U.S. government has rejected an allegation made in an Indian media report, referred in South Asia Brief last week, that it gave an ultimatum to Bangladesh Prime Minister Sheikh Hasina to resign by Nov. 3”.