Sheikh Mohamed, ritratto di un leader alla luce delle sue sfide più grandi
Un ritratto del nuovo Presidente degli Emirati Arabi Uniti, S.A. Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan
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“Mohamed bin Zayed, la forza tranquilla che guida gli Emirati Arabi Uniti leader nella regione”. È con queste parole, impensabili fino agli Accordi di Abramo del 2020, che The Times of Israel titola il ritratto del neopresidente degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohamed Bin Zayed Al Nahyan.
Alle redini del paese già dal 2014 quando lo sceicco Khalifa venne colto da un malore, eletto sabato dal Consiglio federale con un passaggio puramente formale, Mohammed bin Zayed è leader di primo piano nel mondo arabo e tra principali interlocutori occidentali nell’area del Golfo.
Con toni apologetici, la stampa locale elogia la vita dedicata al servizio pubblico. Padre di nove figli, Mohamed è sposato con la sceicca Salama bint Hamdan Al Nahyan della stessa famiglia degli Al Nayhan, storici ruler di Abu Dhabi, discendenti della tribù Bani Yas dell’Oasi di Liwa. Compagna anche nella riservatezza, di Samala circolano pochissime foto legate alle attività filantropiche della Fondazione che porta il suo nome.
La potente famiglia Al Nahyan, un DNA da leader, alla testa di alcuni dei più ricchi fondi sovrani al mondo (inclusi ADIA - Abu Dhabi Investment Authority e Mubadala Investment Company) in queste ore è più che mai circondata dal calore e dalla devozione del popolo emiratino. Quella che si deve ai padri nobili della patria che hanno traghettato il paese dall’arretratezza a elevati standard di benessere generalizzato a seguito della scoperta degli idrocarburi.
Lo sceicco Mohamed, terzo presidente degli Emirati Arabi Uniti e terzo figlio di Zayed fondatore del paese, è nato ad Al Ain al confine con il sultanato dell’Oman, l’11 marzo 1961. Aveva appena dieci anni nel momento in cui sorgeva l’unico stato arabo a forma federale (per altro orgogliosamente ottenuta senza spargimento di sangue) e si è formato alla famosa Royal Military Academy Sandhurst inglese per diventare prima comandante dell’aeronautica nel 1979, poi capo di stato maggiore nel gennaio 1993 e infine generale un anno dopo.
Pragmatismo, decisionismo, leadership forte, apertura “secolare” e liberale sono i tratti con cui lascia descrivere la sua azione politica. Nel 2017, per suo volere, la Grande Moschea di Abu Dhabi che portava il suo nome è stata ribattezzata Moschea Mariam Umm Issa, Maria, Madre di Gesù. Ed è soprattutto a partire dal 2019 che la linea politica è diventata quella della distensione: nell’anno della Tolleranza ha accolto Papa Francesco nella capitale, ha avviato la de-escalation con Siria, Qatar, Turchia includendo anche l’Iran, che in questi giorni, per le condoglianze, ha inviato ad Abu Dhabi il più alto diplomatico, Hossein Amirabdollahian. La promessa di questi anni, che va di pari passo con le ambizioni del leader, è stata quella di accrescere il peso specifico di un paese di appena 10 milioni di abitanti (di cui solo il 10% emiratini) nello scacchiere internazionale, preservando equidistanza e neutralità da un lato, e sostenendo la de-escalation delle tensioni mettendo il paese al riparo da proxy-war dall’altro.
Con la morte di Khalifa, il padiglione allestito nell’aeroporto presidenziale è stato il luogo in cui le alleanze sono state rinsaldate. Dall’Europa, oltre al presidente Mattarella, che ha voluto raggiungere Abu Dhabi anche solo per una visita lampo di poco più di un’ora, sono volati il presidente francese Macron, primo leader occidentale a raggiungere gli Emirati, il presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier e il Principe Felipe di Spagna. Il premier britannico Boris Johnson ha portato il messaggio della regina Elisabetta II, alla testa del regno di cui gli Emirati Arabi hanno fatto parte fino al 1968 quale ex protettorato. Un legame importante, rinsaldato a livello economico nell’ottobre del 2021, quando lo sceicco Mohamed si è impegnato ad investire fino a 14 miliardi di dollari nell’economia post Brexit.
E se l’ultima visita di un presidente americano risale a 14 anni fa, con George W.Bush, in questi giorni un forte messaggio allo storico alleato del Golfo è stato recapitato dalla ricchissima delegazione in arrivo dagli USA, con il segretario di Stato Antony Blinken e la vice presidente Kamala Harris, accompagnata dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, il direttore della CIA Bill Burns, l'inviato per il clima John Kerry, il consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente Philip Gordon, il coordinatore della Casa Bianca per il Medio Oriente Brett McGurk e Barbara Leaf, ex ambasciatrice negli Emirati e direttore del Washington Institute per il Medio Oriente e il Nord Africa.
Molte cose sono successe negli ultimi tre anni, da quando Mohamed ha abbandonato un maggiore interventismo, ritirandosi, ad esempio dallo Yemen, proprio nel 2019. Da un lato, il disimpegno dell’amministrazione Biden nella regione e il ritiro degli Houthi dalla lista Usa dei terroristi; dall’altro, la visita di Putin negli Emirati e le intese crescenti, che vanno dalle politiche dell’alleanza Opec+ all’accordo da 1,3 miliardi di dollari in sviluppo tecnologico ed energetico. Anche l’incontro a Pechino, nel febbraio scorso, tra Mohamed e il presidente cinese Xi Jinping (sullo sfondo degli interessi emiratini per la tecnologia cinese e delle sinergie nella produzione dei vaccini) getta luce sulla diversificazione sempre più allargata delle interlocuzioni. In un nuovo mondo multipolare, con equilibri sempre più magmatici per il conflitto tra Russia e Ucraina, la sfida di Sheikh Mohamed è ora quella di mantenere la promessa del 2019. Nonostante tutto.