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Sport, geopolitica e pace, dall’antichità ai nostri giorni

Dalle olimpiadi nell’Antica Grecia ai giochi recenti a Parigi. Sport e politica si incrociano fin dall’antichità, con riflessi importanti anche nella dimensione internazionale. La riflessione di Francesco Mattarella

Il recente svolgimento delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi nonché di altre manifestazioni sportive può essere un’occasione per una riflessione sulla relazione tra lo sport ed eventi geopolitici e in particolare su come tali eventi possano giovare alla causa della pace tra le nazioni.

Si riporta in merito qualche esempio offerto dalla storia.

Nell’antica Grecia, le Olimpiadi godevano, anche per la loro matrice religiosa, di un rilievo tale da comportare la sospensione di tutte le guerre in corso.

Con l’avvento nel XIX secolo delle ormai laiche (meglio così anche per quanto scriveremo appresso) Olimpiadi moderne e la generale ripresa delle manifestazioni sportive, si affermò il proposito del Barone de Coubertin mirante alla creazione di una realtà mondiale di fraternità nella quale si sarebbero svolte pacifiche competizioni di vigoria atletica.

Pierre De Coubertin enunciava i suoi principi alla fine del secolo XIX quando, in virtù di anni di pace seguiti al Congresso di Berlino del 1878, era opinione diffusa che la guerra appartenesse unicamente al passato o a luoghi lontani dall’Europa.

Alle prime edizioni delle Olimpiadi, i sovrani d’Europa, che anni dopo si sarebbero combattuti, si stringevano la mano e assistevano insieme alle gare.

Il contesto europeo era invero pericolosamente simile all’attuale con la crescita, stante il lungo periodo di pace iniziato garantito dagli accordi di Berlino, di generazioni e di popoli che ritenevano l’idea di guerra appartenente a realtà distanti nel tempo (i conflitti della metà dell’800) o nello spazio (le guerre in Africa e in Asia delle quali di rado giungevano notizie e, non essendo stati inventati la televisione né internet, mai immagini).

La guerra era solamente materia di studio, peraltro solo da parte di chi poteva studiare, nei testi scolastici.

Peraltro (anche in questo la storia sia magistra) l’illusione della pace non aveva forse fatto cogliere l’importanza delle spese militari a guisa che, all’inizio della Grande Guerra, molti Paesi, tra i quali l’Italia, si trovarono impreparati e male armati.

L’America viveva forse una serenità ancor maggiore poiché, sin dall’inizio della loro esistenza, gli USA avevano combattuto operazioni belliche all’estero ma mai sul proprio territorio; il risveglio sarebbe arrivato molti anni dopo a Pearl Harbour e nel millennio successivo alle Twin Towers.

Il tempo di non belligeranza era propizio, come già accaduto in altre epoche storiche, al benessere economico e scientifico con la seconda rivoluzione industriale, al risveglio culturale nelle capitali europee, ma anche, complice l’atmosfera rilassata della belle époque, alla pratica sportiva.

I ragazzi potevano coltivare la salutare pratica dello sport anziché combattersi reciprocamente.

Detta situazione offrì l’opportunità per la dimostrazione di sani e meritevoli valori umani il cui rilievo fu ben maggiore rispetto agli stessi risultati delle gare.

Nel 1908 a Londra Dorando Pietri, stremato al traguardo della maratona, mostra, pur se sconfitto, il coraggio e la tenacia degli italiani.

Di lui si dirà “famoso per non aver vinto” proprio per la dimostrazione di come doti come la tensione al risultato e lo spirito di sacrificio fossero superiori a una mera vittoria.

Gli italiani, a quel temo spesso emigrati e non sempre ben accolti nei Paesi di destinazione, cominciarono ad esser visti in un’ottica diversa anche per la presenza di questi esempi positivi.

I connazionali all’estero iniziarono a non essere più considerati una questione di ordine sociale ma come persone dedite all’impegno nel lavoro come lo era stato Pietri alla Maratona.

È il periodo in cui i nostri emigrati, a Londra come a Parigi o a New York, assurgono dallo stato di problema a quello di risorsa.

È del 1891 la nascita in Massachusetts della pallacanestro ad opera del medico americano James Naismith.

Pochi sanno che Naismith si era ispirato a giochi popolari dei popoli precolombiani quali il pok ta pok dei Maya e il tlatchtli degli Aztechi.

Fu questo un atto di omaggio verso la cultura dei nativi americani pur se da tempo sottomessi dall’etnia anglosassone.

Durante la fase più cruenta della Seconda Guerra Mondiale nell’Italia del Centro-Nord, Gino Bartali con la sua bicicletta portava ai partigiani documenti utili per la Resistenza e per la difesa di cittadini ebrei dalle autorità naziste.

Per tale sua opera, lo Stato di Israele lo ha inserito nel novero dei Giusti tra le Nazioni.

La vicenda umana di Bartali dimostra peraltro come lo sport possa tutelare anche dai rischi di guerra civile.

Nel luglio del 1948, i disordini avvenuti dopo l’attentato a Palmiro Togliatti furono risolti dal lavoro delle forze dell’ordine ma non fu indifferente, oltre al responsabile appello alla calma pronunciato dallo stesso Togliatti dall’ospedale in cui era stato ricoverato, la notizia, proveniente da Briançon, della vittoria di Bartali medesimo al Tour de France.

La frase, da lui stesso pronunciata, secondo cui “una mano, al Ministro dell’Interno Scelba, l’ho data anch’io” rimase a lungo nella cronaca ciclistica ma anche nella memoria politica.

Un’altra guerra civile fu interrotta in Costa d’Avorio nel 2005 quando, approfittando del momento di euforia nazionale generato dalla qualificazione della nazionale di calcio ai campionati del mondo, il capitano Didier Drogba rivolse un appello affinché le fazioni in conflitto smettessero di combattere e si svolgessero libere elezioni.

L’anno seguente, l’eliminazione della squadra, durante la fase finale dei campionati, contribuì al termine del periodo di riconciliazione nazionale con successiva ripresa delle ostilità interne.

Un altro esempio di resilienza di valori di libertà fu paradossalmente offerto alle Olimpiadi di Berlino del 1936.

Il concetto di paradosso si propone alla mente ove si rifletta che l’organizzazione di tale evento fu affidata alla capitale tedesca quando la Germania era una democrazia e forse non fu una grande idea ivi mantenerla nonostante nel frattempo il nazismo avesse conseguito il potere.

Ma le Olimpiadi fornirono anche l’occasione per imperiture forme di dialogo tra giovani di nazioni e di etnie diverse.

Inoltre, la vittoria del velocista afroamericano Jesse Owens diede al regime un’evidente sconfitta morale.

Lo stesso Owens, non troppo gradito al regime per i pretesti (n.b.: pretesti, non motivi, poiché il razzismo non trova mai base su motivazioni logicamente accettabili) razziali, strinse una sincera amicizia con il suo rivale nel salto in lungo, il biondo tedesco Lutz Long.

Lutz Long morirà nel 1943 combattendo contro l’esercito USA, la nazione del suo amico Jesse: da agonista aveva goduto di pace, fama e amicizia, dopo sarebbero arrivate la violenza e la morte nell’anonimato insieme ad altri 6 milioni di tedeschi.

Molti anni dopo, la rivalità nel salto in alto, tra l’italiana Sara Simeoni e Rosemarie Ackerman della Germania Orientale, fu unita a una solida amicizia in un rapporto di stima che travalicava la cortina di ferro.

Durante la guerra fredda, la c.d. diplomazia del ping-pong fu nel 1971 fu propedeutica al viaggio di Richard Nixon a Pechino nell’anno successivo, evento che apportò un notevole contributo alla distensione delle relazioni internazionali nella drammatica realtà dei primi anni ’70.

La partecipazione della nazionale di calcio dell’Iran ai campionati mondiali del 1978 è ancora giudicata da molti osservatori quale una delle ultime espressioni di libertà e di gioia di una nazione che l’anno dopo sarebbe caduta nel regime di Khomeini.

La stessa squadra iraniana sarebbe stata tanti anni dopo, ai mondiali del 1998, protagonista di un incontro con la nazionale statunitense dando vita a un breve periodo di distensione nei rapporti tra i due Paesi.

Il successivo avvento al potere di Ahmadinejad nel 2005 avrebbe poi indotto al rilascio di ogni speranza.

Non si dimentichino inoltre i tanti atleti africani che, provenienti da Paesi poverissimi, hanno contribuito al riscatto morale delle nazioni di origine.

Menzioniamo tra questi George Weah, fuoriclasse liberiano del calcio, il quale, dopo il ritiro dall’attività agonistica, si è impegnato nella vita politica fino a che, divenuto Presidente del suo Paese, vi ha attivamente promosso lo sviluppo di una cultura democratica e di sostegno alla formazione dei giovani.

Lo sport è luogo di promozione di regole in termini di etica nonché di trasmissione di valori di comportamento e rispetto dell’avversario.

Tuttora molti enti sportivi, ad esempio la federazione mondiale del tennis, ammettono a titolo personale, nonostante le sanzioni contro i loro Paesi. gli atleti russi e bielorussi.

Riteniamo che ciò sia giusto, che questi ragazzi meritino il patrocinio delle istituzioni? O vogliamo respingerli di modo che, anziché praticare sport, vengano magari coscritti dall’esercito di Putin per uccidere i loro coetanei ucraini o, in un non auspicabile ma verosimile scenario, di altre nazioni europee?

Anche qui non si dimentichi quanto lo sport abbia in passato contribuito a luminosi esempi.

Negli anni ’50, discipline come il calcio e l’atletica registrarono i successi dei rappresentanti di Svezia, Spagna e Svizzera, nazioni tra le poche in Europa in cui, non essendosi partecipato alla seconda guerra mondiale, i giovani avevano avuto la possibilità di studiare e di praticare attività sportiva.

In attività come il tennis si è assistito in tempi recenti alla protesta del tedesco Alexander Zverev il quale, udendo in un torneo i tifosi che lo incitavano al canto di “Deutschland uber alles”, ha interrotto il gioco asserendo di non riconoscersi in tale espressione.

Negli sport acquatici la notorietà del Principe Duke Kahanamoku, campione hawaiano di nuoto e di surf, giovò negli anni ’50 alla causa del suo popolo e contribuì al riconoscimento, da parte del Governo Federale degli USA, delle isole Hawaii come Stato e non più come Territorio.

Nelle competizioni motoristiche l’organizzazione del campionato di Formula 1 ha ritenuto, anche durante il regime dell’apartheid in Sudafrica, di non escludere i piloti di quella nazione.

Si è a tal guisa evitato di imputare a singoli individui le colpe di un governo illiberale ma si è anche avuto la ventura di verificare, con talenti come Jody Sheckter, come il Sudafrica non andasse nel pensiero comune identificato con gli aguzzini del regime.

Lo sport può generare pace tra le nazioni, pace all’interno delle medesime ma anche, mediante la creazione di posti di lavoro, pace sociale.

In virtù di quanto suesposto, le istituzioni sono invitate, a qualunque livello, al sostegno morale, quando non politico ed economico, agli eventi sportivi quali proficue occasioni di confronto e di vicendevole ascolto.

La promozione, in particolare, di eventi con atleti di Israele e dei Paesi arabi sia di esempio alle generazioni più giovani affinché intravedano il desiderio di confrontarsi nelle competizioni agonistiche anziché sul campo di battaglia ovvero in luoghi di svago trasformati, come accaduto al festival musicale Supernova lo scorso 7 ottobre, in campi di battaglia.

Non sia oggetto di oblio l’orrore avvenuto nel 1972 a Monaco ove furono uccisi dei ragazzi che si erano recati per gareggiare ma furono invece uccisi dall’avversione antisemita.

È indispensabile non ripetere questi errori e rimuovere dalle manifestazioni sportive l’antisemitismo che si può mostrare nella sua forma più ostentatamente violenta come nella tragedia di Monaco ma anche in sottili e mascherate forme di odio espresse con le sembianze di pacifiche proteste o di sedicenti posizioni di equilibrio istituzionale.

In un’ottica di dialogo tra i popoli si inserisce altresì l’esigenza di realizzare centri sportivi nelle città europee, particolarmente in metropoli multirazziali quali Roma o Parigi.

Per le suindicate ragioni, l’incontro di calcio Italia Israele, previsto il prossimo 14 ottobre, sia l’occasione per dire al mondo intero: Shalom!

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