Striscia di Gaza: la proposta di de-escalation americana
L’azione diplomatica americana per sostenere il piano di de-escalation a Gaza proposto da Joe Biden. Il punto di Daniele Ruvinetti
L’amministrazione statunitense ha schierato un combinato disposto operativo per supportare il piano di de-escalation proposto da Joe Biden per la Striscia di Gaza. Due delegazioni si sono recate in Medio Oriente, dirette dal capo della Cia, Bill Burns (che ha avuto incontri a Doha), e dall’inviato speciale per la regione, McGurk (che è stato al Cairo). Il pressing americano per un cessate il fuoco è forte, e la proposta di Biden è un messaggio chiaro di come il coinvolgimento politico-diplomatico di Washington in questo momento sia totale. Tanto che il G7 ha recepito il piano proposto dal leader americano per un cessato il fuoco e il rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas (durante il sanguinoso attentato che ha dato il via alla stagione di conflitto il 7 ottobre scorso).
Biden sostiene che se verrà accettata da entrambe le parti e pienamente eseguita, la sua proposta multi-step comporterebbe un ritiro militare israeliano da Gaza in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi detenuti da Hamas, seguito dalla fine delle ostilità e la conseguente ricerca di una soluzione di più ampio respiro e stabilità. Il presidente ne ha parlato venerdì 31 maggio dalla Casa Bianca con un discorso dedicato, ossia ha dato il massimo livello di attenzione al dossier, e si aspetta una risposta concreta – sia dal governo israeliano, sia dalla leadership politica di Hamas. Il piano in tre fasi inizia con le due parti che osservano un cessate il fuoco “full and complete” per sei settimane, Israele che ritira le sue forze dalle aree popolate di Gaza e Hamas che rilascia donne, anziani e ostaggi feriti in cambio di centinaia di palestinesi incarcerati in Israele. Biden ha descritto la fase due come una “fine permanente delle ostilità”, con Israele che si ritira completamente da Gaza e Hamas che rilascia tutti gli ostaggi viventi rimasti, compresi i soldati maschi. La terza sarà la fase della ricostruzione.
Qatar ed Egitto stanno fornendo le piattaforme diplomatiche per i dialoghi incrociati, perché insieme agli americani sono impegnate delegazioni delle parti in guerra, ma anche altri attori laterali (ma decisivi) come quelli dei Paesi della regione. Qui va segnato che l’escalation militare dei giorni scorsi lanciata da Hezbollah al confine israelo-libanese rischia di scombussolare il complicato tentativo di equilibrio. La paralisi politica a Beirut non aiuta, la milizia filo-iraniana vuole mostrare i muscoli, la crisi militare con Israele persiste dal 2006 e il caos (che produce frammentazione, radicalizzazione e malessere interno) aumenta i rischi di attacchi di terze parti (come quello che ha colpito l’ambasciata statunitense senza produrre danni, condotto da attentatori probabilmente collegati allo Stato islamico, fermati dall’esercito libanese che protegge il compound diplomatico).
Agire rapidamente per stabilizzare Gaza diventa quindi ancora più necessario su tre fronti. Il primo è questione interna: la Striscia è sottoposta a condizioni umanitarie disastrose, migliaia di civili soffrono l’assenza i generi di prima necessità, la de-escalation potrebbe fermare le volontà israeliane di procedere all’attacco di terra contro Rafah. Nella città del sud, al confine egiziano, sono assiepate migliaia di persone che sono scappate dai combattimenti nelle aree più a nord e ora potrebbero finire intrappolate nelle operazioni terrestri, con l’Egitto che sarebbe in sostanza costretto a fornire assistenza ai rifugiati.
Questo collega direttamente la necessità di azione al piano regionale. Il Cairo potrebbe entrare in difficoltà politica (l’immigrazione non è soltanto un tema europeo), anche considerando le problematiche economiche. Poi c’è la vicenda libanese, che è diretta testimonianza di quanto siano elevate le sensibilità. Inoltre c’è la destabilizzazione dell’Indo Mediterraneo prodotta dagli Houthi e un ruolo sempre più complesso che un’Iran in campagna elettorale deve affrontare. La de-escalation e il cessate il fuoco bloccherebbero tutte queste varie dinamiche.
Infine, la questione riguarda la politica internazionale. Biden ha necessità di rispondere alla sua constituency democratica che vuole gli Stati Uniti impegnati in attività di stabilizzazione (e inoltre non può deludere il corpo elettorale musulmano). Ma non solo: Washington è consapevole che da Pechino - che recentemente ha raccolto i Paesi arabi in un forum dedicato – si stanno muovendo attività. La Cina difficilmente parteciperà a manovre complesse, ma potrebbe approfittare del momento per mettere la firma su un processo di stabilizzazione che spiazzerebbe gli Usa (e l’UE).