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Sudan, paese in guerra

Mentre continuano gli scontri tra SAF e RSF, aumentano gli sfollati interni, i migranti internazionali e le persone bisognose di cibo, acqua e medicine. A destare preoccupazione vi sono poi il ruolo di Mosca e la mai sopita minaccia terroristica.

Da oltre un anno il Sudan versa in una condizione di estrema gravità. A causa della guerra civile scoppiata nell’aprile 2023, nel paese si contano oggi circa 17.000 morti, 25 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria e 10 milioni di sfollati interni. A questi numeri bisogna poi aggiungere i 2,2 milioni di individui che sono riusciti a lasciare il paese per dirigersi perlopiù in Ciad (781,693 – 36%), Sudan del Sud (699,337 – 34%) ed Egitto (514,827 – 24%), con dati in aumento anche rispetto all’Etiopia, alla Libia e alla Repubblica Centrale Africana.

Secondo l’ultimo report dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ONU, le situazioni più critiche sono state registrate nella parte centrale del paese, nei pressi della capitale Karthoum e nello stato di Al Jazirah, e a Ovest, nella regione del Darfur – che già in passato era stata teatro di scontri armati, violenze settarie e pratiche genocidarie da parte del regime di Omar Al-Bashir, contro le minoranze entiche non-arabe.

A differenza del conflitto nel Darfur (2003-2020), della prima e della seconda guerra civile sudanese (avvenute rispettivamente tra il 1955 e il 1972 e tra il 1983 e il 2005), il conflitto in corso non si basa sulle istanze secessionistiche di una parte della popolazione, bensì si configura come una contesa per il controllo di tutto il paese. A scontrarsi sono, infatti, le Forze Armate Sudanesi (SAF), guidate dal presidente del Consiglio Sovrano, generale Abdel Fattah Al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (RSF), un gruppo paramilitare sotto il comando dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti”.

Dopo aver contribuito a porre fine al trentennale regime di Al-Bashir nel 2019, sia Al-Burhan che Hemedti hanno fatto parte del governo civile presieduto da Abdalla Hamdok, rispettivamente con il ruolo di presidente e vicepresidente del Consiglio Sovrano. Esautorato il nuovo premier nell’ottobre 2021, i due leader hanno quindi governato insieme il paese fino al 15 aprile 2023. In tale data, le crescenti tensioni tra le due componenti al potere sono sfociate in un vero e proprio conflitto armato, dapprima localizzato nella capitale Karthoum e, successivamente, esteso all’intero territorio nazionale.

Ad oggi, nessuno dei due schieramenti è riuscito a prevalere. Le RSF controllano il confine con la Libia, l’area centromeridionale, quasi tutto il Darfur e i principali distretti della capitale Khartoum. Al contrario, le SAF sono concentrate soprattutto nell’area costiera del Mar Rosso e nella parte sud-orientale del paese. Vi sono poi alcune porzioni di territorio in mano a milizie e gruppi ribelli locali.

Sul piano internazionale, la guerra civile ha attirato l’attenzione di numerose potenze, regionali e non, che sostengono economicamente e militarmente una o l’altra parte in base ai propri interessi. Secondo diverse ricostruzioni emerse sugli organi di stampa, ad esempio, le SAF godrebbero del sostegno di Egitto, Arabia Saudita e Iran, mentre gli Emirati Arabi Uniti sarebbero più vicini alle RSF.

Più ambivalente, invece, la posizione della Federazione Russa. Mosca, che già dai tempi di Al-Bashir era molto attiva in Sudan, ha inizialmente fornito supporto a Hemedti attraverso il Wagner Group, con il fine principale di mettere in sicurezza i siti auriferi del paese, da tempo sfruttati dal Cremlino per finanziare la guerra in Ucraina e per mitigare l’impatto delle sanzioni occidentali. È pur vero, tuttavia, che recentemente vi sono state numerose interlocuzioni anche tra le SAF di Al-Burhan e le alte sfere russe, da tempo interessate al paese per proiettarvi la propria influenza e per stabilire una base navale a Port Sudan, sul Mar Rosso. Data la sua posizione geografica, il Sudan potrebbe rappresentare infatti l’anello di congiunzione tra il Nord Africa, il Sahel e il Corno – tre aree in cui Mosca porta avanti la sua opera di penetrazione e ingerenza, che potrebbero essere sfruttate dal Cremlino anche per minacciare la sicurezza energetica europea ed esacerbare la questione migratoria verso l’Europa. Quanto a Port Sudan, potrebbe rivelarsi un’ulteriore base a disposizione del Cremlino, oltre all’installazione di Tartus in Siria e a quella in fase di negoziazione a Tobruk in Libia. Potrebbe garantire a Mosca un posizionamento strategico-militare di prim’ordine per influenzare la sicurezza commerciale e militare del Mediterraneo.

Per quanto concerne l’Occidente, invece, sin dall’inizio del conflitto Washington e Bruxelles hanno direzionato gli sforzi al fine di garantire l’accesso degli aiuti umanitari nel paese e favorire i colloqui di pace e la transizione civile. In tal senso, la Casa Bianca ha creato la “Piattaforma di Gedda”, di cui, oltre agli Stati Uniti, fanno parte Arabia Saudita, SAF e RSF; Francia e Germania, invece, d’intesa con l’UE, hanno organizzato a Parigi, il 15 aprile 2024, una conferenza internazionale umanitaria per il Sudan, raccogliendo oltre due miliardi di euro da destinare ai bisogni primari della popolazione.

Eppure, tali sforzi ancora non sono stati in grado di risolvere lo stallo. Anzi, con la recente intensificazione degli scontri, i numeri della catastrofe umanitaria sono destinati ad aumentare. Nel Darfur settentrionale, ad esempio, sono in corso violenti combattimenti, che trovano il climax nella città di El-Fasher – ultimo baluardo occidentale delle SAF e sotto assedio delle RSF. Qui, dove le temperature spesso raggiungono i 50 gradi, si troverebbero oltre 2,5 milioni di persone, compreso 1 milione di sfollati provenienti dalle aree circostanti, che hanno trovato rifugio nella città a mano a mano che le battaglie nella regione crescevano d’intensità. Nell’area sono state prese di mira le infrastrutture civili come scuole ed ospedali, oltre a essere stata adoperata la privazione di risorse idriche e alimentari come tattica militare. Crescono, inoltre, le segnalazioni di violenze settarie contro le minoranze che popolano la regione, tanto che la consigliera speciale del segretario generale dell’ONU per la prevenzione del Genocidio, Alice Wairimu Nderitu, ha più volte affermato che “si sta verificando o sta per verificarsi un genocidio”.

In aggiunta alla catastrofe umanitaria in corso, persiste il rischio che il paese torni ad essere un incubatore del terrorismo nella regione.

Invero, il fondamentalismo islamico pone le proprie radici in Sudan già a partire dalla fine del XIX secolo, durante l’amministrazione ottomano-egiziana, quando Muhammad Ahmad, noto come il “Mahdi”, proclamò il primo jihad e fondò un governo basato sulla sharī‛a. Dopo quindici anni di resistenza, il movimento mahdista fu sconfitto dall’esercito anglo-egiziano e riorganizzato in un gruppo sufita legato alla Fratellanza Musulmana egiziana.

In seguito al raggiungimento dell’indipendenza nel 1956, in Sudan si registrarono mobilitazioni, perlopiù studentesche, contro il regime militare di Abbud, organizzate da cellule della Fratellanza Musulmana. Il principale ispiratore delle proteste fu Hassan Al-Turabi, il quale, successivamente, fondò l’Islamic Charter Front che avrebbe guidato il paese fino al 1968. Dopo un colpo di stato, il partito di Al-Turabi fu messo al bando e lui si vide costretto ad abbandonare il Sudan; vi fece, tuttavia, ritorno al termine degli anni Settanta e diede vita al National Islamic Front, tra le cui file figurò anche Al-Bashir, che giunse alla guida del paese nel 1989. In questo periodo, il fondamentalismo islamico toccò il suo apice: fu imposta la sharī‛a e creato il Popular Arab and Islamic Congress, che coordinava tutti i movimenti islamici rivoluzionari.

A partire dal 1991, il Sudan divenne un vero e proprio hub del terrorismo, ospitando esponenti di vari movimenti, tra cui Osama Bin Laden, leader di Al-Qaeda. Questo portò all’inserimento del paese, fino al termine del 2020, nella lista degli stati sponsor del terrorismo, con tutte le gravi conseguenze economiche che ne derivano – in particolare, l’esclusione dagli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.

Nonostante l’estromissione dell’Islam politico dal governo nel 2019, recenti indiscrezioni riportano, tuttavia, come la guerra civile tra Hemedti e Al-Burhan stia permettendo agli islamisti di riorganizzarsi, specialmente in alcune aree dove hanno da sempre goduto di un’influenza maggiore, complice anche il clima di instabilità sociale ed economica in cui versa la popolazione sudanese a seguito del conflitto. Un discorso analogo si può fare con Daesh, che starebbe sfruttando il territorio del Sudan per ricompattarsi e accrescere la propria influenza nel continente africano. Oltre a compiere attentati in Africa, i gruppi terroristici attivi nel paese potrebbero anche sfruttare l’affaccio sul Mar Rosso per minare la sicurezza delle navi commerciali e delle infrastrutture sottomarine, in modo analogo a quanto fatto dagli Houthi in Yemen. Eventualità ancora più probabile laddove venisse a mancare il controllo capillare di uno dei due schieramenti sulla costa sudanese.

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