Sulla Libia grava sempre il rischio dell’instabilità
In Libia, paese centrale per la Sicurezza Nazionale dell’Italia, le divisioni interne acuiscono la precarietà economica e facilitano l’intromissione degli attori esterni, spesso malevoli. Il punto di Daniele Ruvinetti
Lo stallo libico continua. Permane la divisione tra Est e Ovest, con la spaccatura esistente che è esacerbata dall’assenza di movimenti politici concreti. Nel breve periodo sono auspicabili dei passi in avanti per superare l’impasse – che si traduce in un continuo di tensioni interne che gravano il loro peso sul piano internazionale.
Dossier, questi internazionali collegati alla Libia, che riguardano gli equilibri del Mediterraneo e che toccano profondamente l’Italia. Parti della nostra sicurezza nazionale dipendono, infatti, dalla Libia. Sul piano energetico, per esempio, l’instabilità resta alta, come dimostra il recente blocco delle attività al sito estrattivo di El-Sharara. Sul piano migratorio, ancora, la situazione è altrettanto complicata, con un aumento sensibile dei flussi provenienti dal paese nordafricano, secondo i dati del Viminale. Ciò è frutto anche di attività collegate agli attori libici e non che capitalizzano sulle divisioni interne.
La situazione si sta sedimentando, con un incedere molto simile a quello del 2014. Allora le divisioni segnavano il paese anche con scontri militari, prima della creazione del governo onusiano installato a Tripoli – anche, soprattutto grazie al lavoro politico-diplomatico dell’Italia. Quello fu il momento in cui venne creato il Consiglio Presidenziale, organo istituzionale che ancora adesso sta cercando di tenere insieme il paese, rappresentandolo anche nei contatti internazionali di più alto livello (per esempio, recentemente il presidente Mohammed Menfi ha avuto un incontro speciale con il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres).
I due governi, uno in Tripolitania e un altro in Cirenaica, adesso come dieci anni fa non si riconoscono reciprocamente e godono dell’appoggio politico (provvisorio) dall’Alto Consiglio di Stato di Tripoli e dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk. Con l’unica differenza che un tempo il governo riconosciuto – prima della mossa dell’Onu – era quello orientale, mentre adesso il formale riconoscimento è a Occidente. E però il Governo di Unità Nazionale, guidato a Tripoli da Abdul Hamid Dbeiba, ha sì ricevuto fiducia dal percorso diplomatico che l’Onu aveva organizzato a Ginevra, ma ha perso non solo il supporto interno ma anche gli estremi dell’incarico formale – dato che doveva essere un esecutivo di scopo, a cui era stato affidato il mandato di organizzare elezioni libere e democratiche, le quali invece non si sono mai tenute (nonostante due supposti tentativi in tre anni).
Non c’è niente di positivo in questa “ten year challenge” libica, perché oggi come allora rimangono i presupposti per il rischio di derive violente. Vi è, infatti, anche la variabile rappresentata da Khalifa Haftar, signore della guerra di Bengasi, che è in rotta contro Tripoli, sebbene apparentemente aperto a soluzioni alternative che possano soddisfare i suoi interessi.
Tutta questa situazione va a vantaggio di due attori esterni. In Tripolitania c’è la Turchia a gestire le dinamiche regionali, come testimonia la visita ufficiale a Istanbul del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per chiedere aiuto a Recep Tayyp Erdoğan nella gestione del complesso dossier migratorio. In Cirenaica invece resta forte la Russia, che si è incuneata attraverso il Wagner Group e sta usando la porzione orientale della Libia come punto di slancio del nuovo “Africa Corps”, che gestirà le attività ibride (tra sicurezza, difesa, politica e altri interessi strategici) di Mosca.
Su tutto questo pesano le difficoltà economiche di un paese che avrebbe le capacità per essere un attore centrale nel mondo dell’energia e che invece da un decennio è costretto a vedere i propri cittadini soffrire la carenza di molti dei generi di prima necessità, assistendo a un sostanziale impoverimento delle condizioni di vita generali. Per essere chiari, la Banca Centrale Libica sta faticando a gestire le casse del governo tripolino che è a corto di fondi per il mantenimento quotidiano. Problema, questo, condiviso con l’esecutivo orientale e con Haftar – attore sciolto, che per restare parte in gioco deve pagare la sua onerosa milizia.
Le divisioni e le questioni economiche si sfogano proprio sul mondo dell’energia. È qui che Haftar ha fatto sentire il peso delle sue armi, occupando e bloccando già in passato i siti estrattivi, e chiedendo di poter essere parte della ridistribuzione interna dei proventi petroliferi. Ed è qui che le milizie haftariane potrebbero far sentire maggiormente la loro voce anche adesso, sebbene a quanto pare restino in attesa. Il generalissimo di Bengasi è, infatti, consapevole che le eventuali pressioni politiche che potrebbe creare sulla comunità internazionale avrebbero poco effetto, vista la concentrazione generale su altri dossier globali (come Gaza e l’Ucraina). Ma Haftar sa aspettare il momento giusto per assestare il colpo a effetto mediatico, e il degenerare della situazione libica procede, favorendo una tetra instabilità.