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Tra terremoti e alluvioni, il mediterraneo ferito

Il terremoto in Marocco e l’alluvione in Libia riaccendendo i fari della comunità scientifica sull’area del Mediterraneo, la cui fragilità strutturale è già, purtroppo, ben nota. Il punto di Silvia Camisasca

Hussein Eddeb / Shutterstock.com

È un Mediterraneo ferito quello che scorre sotto ai nostri occhi: immagini e cronache drammatiche si ripetono le une dietro le altre dallo scorso febbraio; sempre uguali a sé stesse: stessi volti, stessa disperazione, stesse macerie, dai minareti turchi ai suk marocchini. L’alluvione che ha travolto la Libia segue di pochi giorni il terremoto che ha scosso l’antica città dalle magiche atmosfere da ‘mille e una notte’: la suggestiva Marrakech, crocevia di carovane di mercanti e viaggiatori, set di famosissime pellicole, è in queste ore teatro di una immane tragedia; ad andare in scena è lo strazio del pianto. Sono migliaia le vittime e i dispersi di un bilancio ancora provvisorio. Nelle radici millenarie, nei tramonti incantati ed anche nella precarietà, nella perenne instabilità della terra, si ritrovano le ragioni stesse che uniscono, al di là delle specificità, i popoli del Mediterraneo.

Solo pochi mesi fa i terremoti di Siria e Turchia aprivano la terra lungo una ferita di centinaia di chilometri, riaccendendo i fari della comunità scientifica su quanto in corso nell’area del Mediterraneo, la cui fragilità è, purtroppo, ben nota, per i ripetuti episodi del passato: precedenti che pongono da tempo questi territori sotto la lente di ingrandimento dei più esperti sismologi del pianeta. Tra loro, coinvolto in numerosi progetti di ricerca internazionali, figura Claudio Chiarabba, Direttore del Dipartimento Terremoti dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), le cui considerazioni partono da un elemento ‘a latere’: “Rispetto all’impatto di eventi di tale portata non è secondaria la risposta delle comunità e delle istituzioni associata ai singoli episodi, e, se questo è vero in generale, lo è in maniera sensibilmente più marcata nell’area del Mediterraneo Meridionale, dove, in presenza di un agente naturale devastante, ai costi umani, socio-economici e culturali, si aggiungono le problematiche geopolitiche, diplomatiche e relazionali tra i singoli paesi che compongono uno degli scacchieri più particolari e delicati del mondo”. Per questa ultima ragione, e perché la faglia del Mar Morto (Dead Sea Fault), descrivibile come una cicatrice della terra che si estende per centinaia di chilometri dal sud della Turchia fino all’Egitto, interessando numerosi paesi (fra cui Siria, Libano, Israele e Giordania), rendono le regioni colpite dal sisma dello scorso febbraio, per un duplice motivo, tra le ‘faglie più delicate’ del pianeta. “I terremoti scaturiscono su faglie tra loro comunicanti ed interagenti, capaci potenzialmente di caricarsi a vicenda: questo dato di fondo ci spinge nel tentativo di mettere in campo tutte le nostre forze e competenze scientifiche per progredire nella comprensione dei fenomeni naturali - sottolinea Chiarabba - ricordando che ogni singolo passo in avanti può contare sulla fondamentale risorsa della memoria”. Lungo questa faglia, infatti, le esperienze del passato e la lezione della storia continuano ad illuminare la strada da percorrere per indagare il comportamento della terra ed, eventualmente, attutirne gli effetti: “Disponiamo di un’abbondante documentazione storiografica dei numerosi sisma degli ultimi 3000 anni e, addirittura, riconosciuti in tempi antecedenti da studi geologici; inoltre, il loro devastante impatto è stato tramandato e descritto dalle diverse civiltà che nel corso dei Millenni hanno abitato la vasta zona che si estende dall’Egitto alla Turchia” racconta lo scienziato, riferendosi, non solo alla ricca storiografia ufficiale, ma anche all’eterogeneo patrimonio di poemi e manoscritti dedicati alla distruzione della antica città di Ugarit, come ai ripetuti terremoti dell’epoca della dominazione romana, come quelli riportati dalle civiltà arabo-islamiche. Il materiale disponibile costituisce una preziosa griglia di partenza per gli studi in corso e si presta come termine di confronto con quanto osserviamo ai giorni nostri, cosa chiaramente espressa nelle parole del sismologo: “Se con gli occhi di oggi rivolgiamo lo sguardo all’attività sismica trascorsa, antica e recente, della faglia del Mar Morto, osserviamo che il rilascio sismico degli ultimi 100 anni è minore di quello del passato: è importante interrogarsi sulle motivazioni di questa diminuzione e spingersi, eventualmente, a concludere se essa sia collegata ad una fase di carico importante della faglia, capace di innescare potenti scosse della terra. E, appunto, i forti terremoti dello scorso febbraio hanno prodotto un extra-carico tale da anticipare un possibile forte evento”. In altri termini, ogni faglia ha una propria sveglia che, se pur lentamente caricata, all’improvviso suona: l’innesco può essere anticipato o ritardato e, conseguentemente, alterato il momento in cui questo avviene, se nelle vicinanze si verificano eventi sismici, soprattutto di notevole intensità. La comunità scientifica, alla luce delle informazioni raccolte, ha valutato indispensabile avviare un complesso progetto di monitoraggio di alcuni segmenti della faglia (ad esempio, proprio quelli della Jordan Valley e di Missyaf), che vedrà impegnata nella prossima decade un’equipe internazionale di ricercatori. “L’obiettivo preposto consiste principalmente nel comprendere il contesto geodinamico in cui tali faglie si formano e definire - sulla scorta di dati sismologici, geodetici e geologici - la cinematica e la reologia dei diversi segmenti della faglia” spiega Chiarabba, soffermandosi sulla metodologia con cui i lavori procederanno: “Abbiamo immaginato un near fault observatory esteso, nel quale prevediamo di installare stazioni sismiche a larga banda e accelerometriche, nonché stazioni GPS e geochimiche. È un progetto ambizioso, con un carattere fortemente multidisciplinare, perché vedrà impegnate fianco a fianco figure diverse, ma anche marcatamente internazionale, comportando la collaborazione di diversi istituti europei e giordani e del servizio geologico israeliano”.

Allo scopo di valutare la fattibilità degli studi, INGV, l’omologo tedesco (GFZ) e il Servizio Geologico Israeliano (GSI) si sono già riuniti in via preliminare: in questa fase, Israele e Giordania sembrano i principali stati coinvolti, essendo qui mature le condizioni per avviare partenariati di ricerca, benché la prospettiva sia ampia. “Coltiviamo la speranza di estendere nel tempo la collaborazione a Siria e Libano, consapevoli della portata della sfida, sia per il tema in sé, ovvero l’impatto di eventi catastrofici sulle popolazioni e geografie locali, sia, soprattutto, per l’opportunità di rivolgersi alle problematiche strategiche delle aree più calde del pianeta con un nuovo approccio”. Un approccio che tenga conto anche di implicazioni legate agli attuali cambiamenti in corso, come quelli climatici, e di nuovi scenari che possano influire sugli eventi sismici. “Come scienziati riteniamo parte della nostra missione alimentare il dialogo tra popoli, diversi per cultura e credo, ma accomunati da un destino comune, e promuovere un clima di pace e cooperazione. E a questo compito non intendiamo sottrarci” conclude Claudio Chiarabba.

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