Trump e l’Africa
Al suo rientro alla Casa Bianca, il presidente eletto rimodulerà ma non cancellerà le politiche americane in Africa. Il ruolo di Musk e Starlink per contenere la Cina. Dal Sahel ai Grandi Laghi come potrebbe cambiare la posizione degli USA sotto la guida di Donald Trump.
Pochi personaggi suscitano una polarizzazione pari a quella di Donald J. Trump, quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. Analizzare il pensiero del presidente in una prospettiva geopolitica è, di per sé, un esercizio complesso, spesso soggetto a semplificazioni o fraintendimenti. Se, in questo contesto, proviamo a delineare l’approccio di Trump verso le relazioni tra Stati Uniti e paesi africani - un continente storicamente marginale nell’agenda presidenziale statunitense - il compito diventa ancora più impegnativo. Poco incline all'analisi della complessità, e sempre attento ad offrire un messaggio efficace per i propri sostenitori, il presidente americano divenne famoso durante il suo primo mandato per aver definito alcuni paesi del cosiddetto Global South (inclusi alcuni stati africani) come shithole. Al netto di questo, come spiegare alcune immagini di giubilo per la sua rielezione in paesi come Kenya Uganda Nigeria e Ghana? Per rispondere a questa domanda, e per capire cosa aspettarsi dal secondo mandato di The Donald alla Casa Bianca, bisogna partire dal mutamento degli interessi americani verso il continente.
L'Africa ineluttabile
Al di là della retorica, sarebbe un errore considerare il primo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca come segnato da un disinteresse per l’Africa. Il suo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, ha lavorato attivamente per favorire un accordo tra Eritrea ed Etiopia sulla storica disputa di confine, uno dei conflitti più sanguinosi e prolungati del continente. Inoltre, i rapporti USA-Africa hanno tratto vantaggio dall’approccio da "dealmaker" che ha caratterizzato la presidenza Trump. Durante il suo mandato, infatti, le partnership tra privati sono aumentate, anche grazie alla creazione della United States International Development Finance Corporation (DFC), agenzia del governo statunitense incaricata di sostenere finanziariamente i paesi in via di sviluppo.
Nonostante le inclinazioni protezionistiche di Trump, la sua amministrazione ha rinnovato l’Africa Growth and Opportunity Act (AGOA), l’accordo che consente alle imprese africane di esportare negli Stati Uniti. Sul piano della sicurezza, Trump ha rispettato le sue promesse elettorali riducendo significativamente la presenza delle forze americane nel continente, mantenendo comunque una presenza strategica e lasciando maggiore autonomia agli stati africani nella gestione delle crisi.
Anche se la politica estera di Trump appare meno propensa all’avventurismo rispetto a quella delle amministrazioni democratiche, il presidente è consapevole che la presenza americana in Africa, per quanto modulabile, resta essenziale e non può essere completamente abbandonata. Mantenere relazioni con il continente è funzionale alla strategia di reshoring dell’industria americana, mirata a ridurre le importazioni. Gli apparati americani ritengono necessario mantenere un impegno in Africa, rendendo strutturale la presenza americana in aree chiave e circoscritte. Questa visione rappresenta un’evoluzione della “geopolitica delle ancore,” una dottrina che punta a rafforzare i legami con partner strategici situati in diversi punti del continente. Trump mira a utilizzare questo schema per sostenere un ordine multipolare in Africa, basato sulle sfere d’influenza regionali degli alleati USA.
Anche il partito repubblicano sembra riconoscere l’importanza di una presenza americana in Africa, sia per contenere l’espansionismo cinese sia per garantire l’accesso a materie prime cruciali per l’industria interna. A ciò si aggiunge una motivazione competitiva: dopo l’attivismo dell’amministrazione Biden nel continente, Trump e i suoi sostenitori desiderano dimostrare di non essere da meno.
Make Africa Great Again: Il soft power del tycoon tra commercio e infrastrutture
Il primo elemento su cui Trump probabilmente investirà per la propria politica africana è, paradossalmente, la sua stessa immagine. La percezione del presidente americano come imprenditore di successo e self-made man ha un certo appeal presso alcune opinioni pubbliche africane, dove leader dalle storie personali simili, come William Ruto in Kenya, sono stati recentemente eletti, conferendo a Trump un certo credito. Un secondo aspetto del suo approccio riguarderà una rimodulazione degli strumenti della politica americana nel continente. In questo ambito, si prevede un ampio investimento nella DFC, fondata durante il suo primo mandato ma finora sottoutilizzata.
Una delle decisioni chiave che Trump dovrà affrontare riguarderà il futuro dell'AGOA, in scadenza nel 2025. Pur avendo promesso un aumento generalizzato dei dazi, Trump potrebbe accettare un compromesso per contrastare l’influenza cinese, nonostante l’AGOA sia in parte in contrasto con la sua visione economica protezionistica.
A differenza dei grandi progetti infrastrutturali lanciati dal suo predecessore, Trump sembra poco incline a mantenerne il livello di impegno finanziario, soprattutto in ambito multilaterale. Un esempio significativo è il corridoio di Lobito, un progetto di grande interesse per le imprese americane. Tuttavia, i rapporti tesi tra Trump e l’Unione Europea potrebbero ostacolare i finanziamenti multilaterali previsti nel contesto della Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII). Trump, infatti, predilige relazioni bilaterali e potrebbe valutare una maggiore partecipazione diretta americana al progetto, riducendo il coinvolgimento multilaterale e ponendo gli Stati Uniti come partner principale.
Il ruolo di Musk e Starlink
Una menzione a parte merita la figura di Elon Musk e le opportunità che il suo coinvolgimento nell’esecutivo americano aprono in Africa. Musk è il proprietario di una serie di aziende in pieno stato di grazia che stanno ottenendo un successo enorme in Africa, una su tutte Starlink. Il provider satellitare di Internet ha da poche settimane dovuto sospendere l'adesione di nuovi utenti a causa dell’eccessivo numero di richieste provenienti dalle grandi metropoli del continente, in particolar modo da Nairobi e Lagos. Starlink è attualmente uno dei provider più richiesti da parte dell'utenza Africana anche se i governi e i tecnocrati del continente, sono più guardinghi rispetto alla penetrazione dell’azienda di Musk nei mercati locali. Il timore è che il servizio satellitare offerto da Starlink possa indebolire i governi africani in sede negoziale nell’ambito delle relazioni con il miliardario sudafricano. I servizi di Starlink, infatti, possono essere interrotti in qualsiasi momento a piacimento di Musk mentre il tradizionale sistema della connettività via cavo no. Un fattore che pesa nelle valutazioni africane rispetto all’intesa con Musk. Al netto di queste valutazioni, l’exploit di Starlink si presta bene all’obiettivo trumpiano di contenere l’espansione cinese in Africa e in quest’ottica il presidente eletto non esiterà ad usarlo.
Le crisi regionali tra continuità e cambiamento
Venendo ai dossier regionali sarà sempre più interessante valutare come l’agenda di Trump deciderà di affrontare i principali conflitti in corso nel continente. Il disegno di Trump rispetto a un minor coinvolgimento americano collima con la politica americana per l'Africa occidentale implementata anche dai predecessori democratici. In particolar modo, nelle regioni del Sahel e del Lago Ciad, gli Stati Uniti hanno monitorato attentamente l’evolversi delle insurrezioni locali ma non cedendo a particolari forme di espansione del loro impegno. Proprio come Biden, Trump punterà a garantire diverse forme di assistenza ai governi locali (ad esempio armando l’esercito nigeriano o addestrando quello ciadiano) e in particolar modo ai paesi rivieraschi della regione diventati alleati ancora privilegiati dopo la crisi dei golpe nel Sahel e l’avanzamento russo nella regione. Un light footprint confermato anche nel manifesto del Project 2025 redatto dalla Heritage Foundation da molti considerato come il programma (non riconosciuto) della presidenza Trump e che prevede il mantenimento dell’impegno militare USA nel contesto dell’antiterrorismo.
Diverso il discorso per quanto riguarda i conflitti del Corno d'Africa. Qui Trump potrebbe far sentire maggiormente il cambio di passo rispetto al suo predecessore. I rapporti tra l'amministrazione Biden e il governo etiope di Abiy Ahmed sono stati spesso caratterizzati da momenti di attrito specialmente per quanto riguarda la gestione della ricostruzione del Tigray e la repressione delle insurrezioni nell’Amhara e nell’Oromia. Molto spesso, Joe Biden, ha utilizzato la leva degli aiuti umanitari per ammorbidire le posizioni di Abiy Ahmed in un meccanismo che ha compromesso le relazioni con quello che fino a pochi anni fa era considerato uno degli alleati più vicini agli USA nella regione. Ad Abiy, i democratici hanno preferito il rafforzamento delle relazioni con il Kenya di William Ruto designato come major non-NATO ally dopo la visita del presidente keniota dello scorso maggio. Il ritorno di the Donald a Pennsylvania Avenue potrebbe portare a un ripensamento a 360 gradi delle relazioni tra gli USA e i paesi del Corno d’Africa. Agli occhi di Trump e del suo gabinetto, Abiy Ahmed è un partner potenzialmente importante. Fanatico dell'innovazione digitale e del libero mercato, il premier etiope rappresenta dal punto di vista umano un leader molto più simile a Trump di quanto non fossero i suoi predecessori. Durante il primo mandato l'amministrazione Trump gradì in particolar modo le nuove politiche del premier etiope per un distanziamento da Pechino rispetto ai suoi predecessori dello EPRDF. Sarà interessante vedere come il nuovo presidente americano approccerà in questo contesto la crisi del Mar Rosso dove Trump potrebbe sposare una linea maggiormente vicina alle istanze di Addis Abeba. Bisogna poi sottolineare come alcuni dei tecnici vicini a Trump sono anche piuttosto critici delle istituzioni somale considerate anch'esse come dei free rider che utilizzano risorse americane senza riuscire a sconfiggere Al-Shabaab. Va da sé che l’approccio di Trump alla disputa sul Mar Rosso, potrebbe rivelare qualche sorpresa. Secondo alcuni rumors a Washington, infatti, il presidente potrebbe anche spingersi a riconoscere l'indipendenza del Somaliland.
Anche sulla questione del conflitto in corso in Sudan, la presidenza di Trump potrebbe portare a una revisione della postura americana. Il tycoon ha negoziato l’accordo per la cancellazione di Khartoum dalla blacklist dei paesi sponsor del terrorismo. Lo fece seguendo il classico approccio da deal maker imponendo al governo di transizione guidato da Abdullah Hamdok il pagamento di un risarcimento di 10 miliardi di dollari agli USA per la complicità del regime di Omar Al-Bashir negli attentati alle ambasciate di Nairobi e Dar-Es-Salaam compiuti da Al-Qaeda nel 1998. In questo contesto, Trump e repubblicani sono piuttosto diffidenti in merito alle forze regolari sudanesi guidate da Al-Burhan che percepiscono a torto o a ragione come troppo vicini al regime deposto. In base a questo fattore, quindi, non è non è da escludere che Trump possa mostrarsi più inclusivo rispetto alle istanze delle RSF del generale Hemedti, nell’ambito di nuovi negoziati tra le parti in conflitto.
In merito alla crisi dei Grandi Laghi e all'insurrezione nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), il presidente eletto potrebbe invece agire in continuità con il predecessore supportando le istanze di Kinshasa contro il Ruanda. Trump apprezza in particolar modo l’atteggiamento critico del presidente congolese Tshisekedi rispetto alle partnership con la Cina siglate dal suo predecessore. Considerando il crescente interesse degli Stati Uniti per i materiali critici del paese non è escludibile che Trump possa optare per un supporto più pronunciato della RDC armando l’esercito congolese contro gli insorti dell’M23. In questo contesto, the Donald potrebbe risultare più incisivo di quanto non sia risultato l'equilibrismo dei democratici fra Ruanda e Congo.
Ogni presidente americano deve fare i conti con la tecnocrazia americana, un confronto che spesso porta a modifiche nelle politiche inizialmente proposte. Le prime dichiarazioni e le nomine di Trump indicano che gli Stati Uniti potrebbero diventare un alleato più esigente in Africa. In questo contesto, la presidenza Trump non rappresenta necessariamente un elemento di rottura per le strategie italiane ed europee nel continente, anche se governi e tecnocrazie europee dovranno svolgere un ruolo più autonomo e proattivo per rafforzare la propria influenza. Sta a noi cogliere le opportunità derivanti da questa nuova impostazione.