Venti di crisi nella regione dei Grandi Laghi
La Repubblica Democratica del Congo è oggetto di scontri tra l’esercito regolare e il movimento filo-ruandese M23. Dopo giorni di intensa guerriglia, il cessate il fuoco del 4 febbraio offre una pausa temporanea. Tuttavia, la situazione resta incerta mentre le trattative per la pace continuano.
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Il conflitto nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo (RDC) continua a essere segnato da violenze e tensioni geopolitiche. Il 4 febbraio 2025 l’Alliance Fleuve Congo (Afc), il braccio politico della ribellione M23, ha annunciato un cessate il fuoco unilaterale, presentandolo come una risposta alla crisi umanitaria in corso. Tuttavia, la decisione è stata accolta con scetticismo dal governo congolese, che continua a denunciare l’ingerenza del Ruanda nel conflitto. Mentre la comunità internazionale osserva con attenzione, la situazione sul terreno rimane critica.
Da settimane, la provincia del Nord Kivu, nella porzione nordorientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), è teatro di intensi scontri tra l’esercito congolese (FARDC) e i ribelli filo-ruandesi del Movimento 23 marzo (M23), parte della coalizione Alliance Fleuve Congo (AFC).
L’offensiva del M23, iniziata nel 2021, ha subito una drammatica accelerazione nel gennaio scorso, culminando il 27 del mese con la conquista di Goma, capoluogo della provincia e città da due milioni di abitanti. L’attacco ha scatenato un esodo massiccio: secondo le Nazioni Unite, oltre 400.000 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case, mentre si registrano almeno 900 morti e 2.880 feriti.
La crisi ha assunto una dimensione geopolitica ancora più delicata a causa del presunto sostegno del Ruanda ai ribelli. In una dichiarazione rilasciata il 2 febbraio, il governo ruandese non ha smentito apertamente il proprio coinvolgimento, limitandosi a definire i combattimenti vicino al confine una grave minaccia per la sua sicurezza e sovranità. Al contempo, Kigali respinge le accuse e si dice vittima di una strumentalizzazione, attribuendo la responsabilità dell’escalation a Kinshasa, accusata di aver rifiutato il dialogo con l’M23. La situazione nel Nord Kivu resta, dunque, estremamente instabile, mentre la comunità internazionale segue con crescente preoccupazione l’evolversi del conflitto.
Per decifrare la crisi attuale, è necessario dipanare il filo degli eventi che l’hanno intrecciata. Quanto accaduto negli ultimi giorni, infatti, affonda le proprie radici nella rete di conflitti etnici e politici – nonché di ingerenze estere – che ha caratterizzato la storia della RDC fin da quando questa ha raggiunto l’indipendenza dal Belgio nel 1960. Più nello specifico, occorre risalire al 1994, anno del genocidio perpetrato in Ruanda dalla popolazione Hutu contro quella Tutsi (le due principali etnie nella regione dei Grandi Laghi). In seguito alla controffensiva dei Tutsi, oltre un milione di Hutu ruandesi si rifugiarono nelle province orientali della confinante RDC e da allora divennero un incubatore di tensione. Da qui, infatti, presero avvio le due guerre del Congo (1996-97 e 1998-2003), in cui i contrasti tra le due etnie divennero parte di una contesa per il controllo del paese, che registrò anche l’intervento dei principali stati della regione. Anche dopo la fine delle ostilità nel 2003, l’opposizione di gruppi ribelli nel Nord e Sud Kivu – guidata in particolare dalla formazione paramilitare Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) – proseguì fino al 23 marzo 2009, quando si raggiunse un accordo per l’integrazione dei Tutsi negli apparati militari e amministrativi della RDC. Successivamente, nel 2012, un gruppo di ex soldati del CNDP, che si sentivano traditi dal governo congolese per non aver rispettato gli accordi del 2009, fondò il movimento M23 (dal nome dell’accordo di pace del 23 marzo 2009). L’M23 prese il controllo di Goma per alcuni giorni nel 2012, ma dovette ritirarsi a causa della pressione internazionale e militare. Dopo essersi mantenuto relativamente quiescente dal 2013, l’M23 è riemerso nel 2021, riprendendo le sue operazioni nel Nord Kivu, con l’intento di proteggere i Tutsi e contestare il governo congolese per la mancata attuazione degli accordi del 2009.
In questo contesto drammatico – con oltre sei milioni di vittime dal 1994 a oggi – la RDC è diventata uno dei paesi con il più alto numero di sfollati interni al mondo. Secondo le Nazioni Unite, più di sei milioni di persone sono sfollate all’interno del territorio congolese, mentre almeno un milione ha cercato rifugio nei paesi vicini. Neppure la missione di peacekeeping dell’ONU, MONUC (ribattezzata MONUSCO nel 2010), dispiegata nelle province orientali dal 1999, è riuscita a contenere le violenze e proteggere i civili. Il suo fallimento ha alimentato crescenti tensioni con il governo di Kinshasa, fino alla decisione del presidente Félix Tshisekedi di richiederne il ritiro. Il processo di disimpegno è iniziato nell’estate del 2024 e, se portato a termine, segnerà la fine di un intervento durato oltre due decenni.
La crisi che infiamma il confine nordorientale della Repubblica Democratica del Congo è strettamente legata alle fragilità politiche e istituzionali che affliggono il paese. Sebbene le elezioni del 2018 abbiano segnato la prima transizione pacifica di potere dall’indipendenza, il sistema politico congolese resta profondamente influenzato dalle élites, con un processo democratico condizionato da corruzione endemica, scarsa separazione dei poteri e limitazioni ai diritti fondamentali della popolazione. A questo scenario di instabilità si aggiunge la sfida del controllo territoriale, una questione che si intreccia con altri fattori chiave: la presenza di oltre un centinaio di gruppi armati, concentrati soprattutto nelle province orientali, e la gestione delle immense risorse minerarie del paese – una ricchezza che, anziché garantire prosperità, espone la RDC a dinamiche di sfruttamento e ingerenze esterne, tra cui quelle dell’M23.
Kinshasa dispone, infatti, delle più grandi riserve al mondo di minerali critici (CRM) essenziali per lo sviluppo della filiera tecnologica e digitale, oltre che di oro. L’estrazione dei cosiddetti 3T (coltan, stagno e tungsteno), materiali indispensabili nell’ambito della strumentistica elettronica, è tra i principali motivi alla base della lotta con i ribelli del M23 e con il Ruanda. Dal 2021, il gruppo controlla alcuni dei principali giacimenti di questi minerali, tra cui quelli di Rubaya, nel Nord Kivu, gestendone la regolamentazione, l’estrazione e l’esportazione soprattutto verso il vicino Ruanda che ne è diventato uno dei maggiori esportatori mondiali pur non avendo giacimenti. Secondo il ministro delle Finanze congolese, Nicolas Kazadi, il traffico illegale di minerali ammonta a 120 milioni di tonnellate al mese, con perdite per l’economia della RDC stimate in un miliardo di dollari all’anno. Il rapporto del Group of Experts on the Democratic Republic of the Congo dell’ONU, sopra menzionato, ha definito questo commercio illegale “la più grande alterazione della mineral supply chain nella regione”.
Una situazione analoga è quella relativa all’oro, localizzato principalmente nel bacino del fiume Ituri, nell’omonima provincia controllata principalmente dal gruppo Auto-défense des communautés victimes de l’Ituri (ADCVI), milizia molto vicina all’M23. Anche grazie alla sua lavorazione più semplice rispetto ai minerali sopramenzionati, l’oro è al centro di traffici illegali con un valore stimato di 140 milioni di dollari ogni anno, indirizzati principalmente verso Emirati Arabi e Cina.
Sul piano internazionale, il conflitto in Repubblica Democratica del Congo ha attirato l’attenzione delle grandi potenze, in particolare della Repubblica Popolare Cinese (RPC) e Stati Uniti. Pechino, con il suo crescente impegno economico e commerciale in Africa, ha visto nella RDC una risorsa cruciale per le sue ambizioni minerarie, in particolare per l’approvvigionamento di minerali critici necessari per la sua industria tecnologica. Nello specifico, la RPC risulta impegnata nell’estrazione di cobalto, altro minerale critico per lo sviluppo della filiera tecnologica e digitale, di cui la RDC detiene più del 50% delle riserve mondiali nel proprio sottosuolo. Il Dragone, infatti, utilizzando la leva economica – attraverso ingenti investimenti che hanno prodotto una condizione di trappola del debito – ha ottenuto il controllo di circa l’80% del cobalto congolese, soprattutto nella regione meridionale del Katanga.
In risposta alla politica assertiva cinese, negli ultimi anni vi è stato un riavvicinamento tra Washington e Kinshasa. Si inseriscono in questo contesto il MoU on the Support for the Development of a Value Chain in the Electric Vehicles Battery Sector del 2022 tra USA, RDC e Zambia, così come la costruzione del corridoio di Lobito che, connettendo il paese alle infrastrutture portuali dell’Angola, riuscirebbe a offrire nuovi sbocchi al mercato minerario del paese. Tuttavia, l’elezione di Donald Trump solleva interrogativi sul futuro dell’impegno statunitense nella regione. L’amministrazione Biden ha promosso un maggiore coinvolgimento in Africa, riconoscendo il ruolo strategico del continente nella competizione globale, ma Trump potrebbe adottare un approccio più isolazionista o pragmatico, privilegiando accordi bilaterali e riducendo l’impegno diplomatico diretto. Se il nuovo corso ricalcasse il primo mandato dell’ex presidente, quando l’Africa rimase ai margini della politica estera statunitense, la RDC potrebbe trovarsi costretta a rivedere la propria strategia di diversificazione geopolitica, con implicazioni rilevanti per gli equilibri economici e politici dell’intera regione. Dunque, con la crescente competizione con Cina e Russia per le risorse strategiche, il nuovo corso della politica estera statunitense potrebbe rivelarsi decisivo per gli equilibri geopolitici della regione.
In conclusione, la crisi in corso nel Nord Kivu, presenta sviluppi che restano al momento estremamente incerti, soprattutto dal punto di vista del coinvolgimento di attori internazionali. Nonostante il cessate il fuoco raggiunto il 4 febbraio 2025, quanto accaduto ha senza dubbio complicato il quadro estremamente fragile della Repubblica Democratica del Congo. Kinshasa necessita, infatti, di trasformazioni significative dal punto di vista della governance politica ed economica per uscire dalla spirale di corruzione, lotte interne e condizionamenti esterni che continuano a svilupparsi soprattutto intorno alle ricchezze del suo sottosuolo.