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Sudan senza pace

Nel paese continuano gli scontri, mentre avanza la necessità di ricercare una soluzione per il bene della popolazione. L'analisi di Akinyi Omondi

A poco più di un anno dall’inizio della guerra in Sudan tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Rapid Support Forces (RSF), continuano i combattimenti tra i due gruppi, nonostante i numerosi processi di pace, per ora rimasti infruttuosi. Contrariamente alle previsioni, secondo cui le SAF avrebbero sopraffatto le RSF, data la superiorità degli armamenti, comprendenti le forze aeronautiche e l’artiglieria pesante, nonché in virtù della loro legittimità quale esercito nazionale, le RSF continuano a farsi valere nel conflitto guadagnando terreno in modo sostanziale. Il 29 giugno, le RSF hanno occupato le città di Sinja e Al Dinder, nel sud-est del paese, costringendo parte della popolazione a fuggire nei vicini stati di Gedaref, Kassala e Nilo Azzurro. Si tratta di una conquista significativa per le RSF, che si avvicinano alla cattura di Sennar, che a sua volta le farà avanzare verso la città di Gadaref e Ad-Damazin, la capitale dello stato del Nilo Azzurro. Inoltre, in virtù della posizione di confine con l’Etiopia, ciò aprirebbe nuove linee di rifornimento per armi e reclutamento.

Per un paese che stava già vivendo una profonda crisi umanitaria prima dello scoppio della guerra, le conseguenze del conflitto si stanno rilevando devastanti, con la situazione umanitaria che continua a peggiorare con l’intensificarsi delle ostilità. A giugno, secondo i dati delle Nazioni Unite, circa 14.000 persone sono state uccise e 10 milioni risultano sfollate a causa del conflitto. Ciò rappresenta il più alto tasso di sfollati al mondo. Con l’estendersi del conflitto, l’accesso umanitario risulta limitato e l’intensa violenza impedisce la consegna degli aiuti di primaria importanza. Inoltre, le restrizioni burocratiche rendono ancora più complicato l’accesso, con le autorità che hanno revocato i permessi per i trasporti transfrontalieri chiedendo, in alcuni casi, tangenti esorbitanti per consentirne il passaggio.

Nonostante il loro diniego, le SAF sono state accusate di permettere la consegna degli aiuti solo nei territori sotto il loro controllo, tagliando, di fatto, le forniture alle aree controllate dalle RSF, che sono tra le più insicure del paese. Al tempo stesso, le RSF avrebbero richiesto tariffe esorbitanti ai convogli umanitari per attraversare le aree da loro controllate. Secondo il World Food Program il Sudan, senza la cessazione delle ostilità, potrebbe ospitare “la più grande crisi alimentare del mondo”. Il WFP ha dichiarato come il 90% della popolazione si trovi in una situazione alimentare di emergenza, localizzandosi, inoltre, in luoghi in cui l’organizzazione stessa non può aver accesso.

Secondo i dati pubblicati dal WFP il 27 giugno, più di 750.000 persone si trovano in una situazione di insicurezza alimentare catastrofica (Fase 5 IPC) in 10 dei 18 stati, tra cui Darfur, Kordofan meridionale e settentrionale, Nilo Azzurro, Al Jazirah e Khartoum. Inoltre, 25.6 milioni di persone stanno affrontando livelli critici di crisi alimentare. Il rapporto IPC (Integrated Food Security Phase Classification) indica che 14 aree, tra cui il Grande Kordofan, il Grande Darfur, gli Stati di Al Jazirah e alcune regioni di Khartoum, sono a rischio carestia. Inoltre, il 18% della popolazione è alle prese con carenze alimentari che potrebbero portare a grave malnutrizione e, di conseguenza, potenzialmente alla morte.

Il conflitto, inoltre, ha avuto un forte impatto sulle attività agricole e sulla produzione alimentare del paese, con una produzione di cereali nella stagione 2023-2024 inferiore del 46% rispetto all’anno precedente. La produzione è stata particolarmente bassa nelle regioni del Kordofan e del Darfur, dove i combattimenti sono stati intensi. Nel Darfur occidentale, gli agricoltori non hanno potuto accedere alle loro coltivazioni a causa dell’insicurezza crescente, perdendo, di fatto, un’intera stagione agricola. A risentirne non è stata solo la produzione, ma anche i mezzi di sostentamento, dato che il 60-80% della popolazione dipende in larga misura dall’agricoltura come principale fonte di reddito. Una delle aree più colpite è lo stato di Al Jezirah, una delle regioni più produttive del paese, rappresentando il 50% della produzione di grano e il 10% di quella di sorgo. Lo stato ospita anche il Gezira Agricultural Scheme, il più grande sistema di irrigazione del paese. Secondo una dichiarazione rilasciata il 5 giugno su Facebook dal National Umma Party (NUP), nella stagione corrente, solo il 10% del Gezira Agricultural Scheme, il più grande progetto agricolo del paese, fondamentale per la sicurezza alimentare, è stato raccolto con macchinari agricoli. La guerra in corso ha reso difficile l’approvvigionamento di beni essenziali come semi e fertilizzanti, facendo lievitare i costi della preparazione agricola. Inoltre, le RSF, che hanno preso il controllo di Wad Madani nel dicembre 2023, hanno saccheggiato le riserve di cibo e dei prodotti immagazzinati dagli agricoltori, provocando la fuga di molti contadini e lavoratori agricoli.

I profughi, soprattutto donne e bambini, in fuga verso i paesi limitrofi, gravano anche sui paesi che hanno già una propria crisi umanitaria. Costoro fuggono principalmente in Ciad, Libia, Repubblica Centrafricana, Egitto, Etiopia e Sudan, dove nella maggior parte dei casi devono affrontare gravi carenze alimentari, con i bambini particolarmente esposti ai rischi della malnutrizione.

Le SAF chiedono l’attuazione della Dichiarazione di Gedda dell’11 maggio 2023 sull’impegno a proteggere i civili del Sudan prima di qualsiasi negoziato; chiedono, anche, il ritiro delle truppe RSF dalle città chiave. Inoltre, si sono opposti a qualsiasi forma di negoziato, riconoscendo il vantaggio che le RSF traggono dagli sforzi diplomatici e politici, nonché dalle risorse e dalla capacità militare che Hemeti ha accumulato nel corso degli anni. In sostanza, ciò significa che se venisse raggiunto un accordo tra i due gruppi, le SAF probabilmente faticherebbero a mantenere il controllo dell’esecutivo anche se la popolazione sudanese spinge per un governo civile. Di conseguenza, le SAF si stanno concentrando maggiormente sul tentativo di distruggere completamente le RSF, un obiettivo, però, quasi impossibile. Nel frattempo, le RSF sembrano più aperte ai negoziati, poiché un accordo postbellico gli garantirebbe un notevole grado di legittimità. Ciò consentirebbe alle RSF di ottenere l’indipendenza evitando l’integrazione nelle forze armate come concordato in precedenza, permettendo così a Hemeti di rafforzare le proprie ambizioni politiche. Inoltre, l’attuale esercito nazionale è stato accusato di favorire gli islamisti durante il reclutamento, spingendo così la popolazione a chiedere riforme per avere un esercito più istituzionale, senza tale componente islamista.

Ciò evidenzia la complessità e la difficoltà del processo negoziale. Pertanto, è fondamentale che le parti interessate diano priorità alla soluzione della crisi umanitaria rispetto al raggiungimento di un accordo politico. In questi conflitti, entrambe le parti fanno pesantemente leva sull’intensità e sulla gravità della guerra, mettendo spesso in secondo piano le esigenze e le preoccupazioni umanitarie durante i negoziati. Per il bene della popolazione, i negoziatori, soprattutto quelli che hanno influenza sulle fazioni in guerra, dovrebbero adottare un approccio diverso. Invece di permettere ai due leader di dominare il processo di pace, dovrebbero esplorare strategie alternative. L’attenzione dovrebbe spostarsi dalle richieste politiche di entrambe le parti alla crisi umanitaria esacerbata dal conflitto. Centrare la discussione sulla situazione umanitaria non solo aiuterà ad attuare misure immediate per alleviare la crisi, ma servirà anche come punto di partenza per il dialogo politico. Questo approccio enfatizza l’impatto del conflitto sul benessere della popolazione, piuttosto che assecondare i desideri delle fazioni in lotta.

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