Yemen: riparte il confronto dopo l’intesa di Riad?
Dopo i colloqui tra le fazioni yemenite ospitate a Riad, in Yemen si sono prodotti i primi importanti passi per sbloccare la situazione. Il ruolo di sostegno dell’Arabia Saudita per il raggiungimento di un’intesa. Il punto della situazione di Leonardo Palma
Dopo una settimana di colloqui tra le diverse fazioni yemenite, ospitate dal Consiglio di Cooperazione del Golfo a Riad, il presidente Abdo Rabo Manosur Hadi ha annunciato che avrebbe ceduto il potere ad un nuovo Consiglio Direttivo al fine di rimuovere quegli ostacoli che hanno finora impedito la cooperazione tra le forze anti-Houthi. La decisione, comunicata in diretta televisiva dalla capitale saudita e concomitante alla inaspettata tregua di due mesi entrata in vigore lo scorso 3 aprile, potrebbe rappresentare una svolta nella guerra civile che sta devastando lo Yemen da otto anni e aprire la strada a possibili negoziati con i ribelli sciiti. Il nuovo Consiglio presidenziale sarà guidato da Rashad al-Alimi, stimato membro del governo che vanta ottimi rapporti con l’Arabia Saudita, gli Stati Uniti e con il partito islamista Al-Islah. Nel nuovo organismo siederanno anche Aidarous al-Zubaidi, dirigente del gruppo separatista meridionale (CTS Consiglio di transizione meridionale) sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Sultan al-Aradah, governatore della provincia di Marib, e Tariq Saleh, nipote del defunto presidente e leader delle milizie filogovernative. Vieppiù, Hadi avrebbe rimosso il suo controverso vicepresidente, Ali Mohsen al-Ahmar, politico inviso agli Houthi per il ruolo avuto nella campagna militare nel nord del paese ma anche ai separatisti di al-Zubaidi per la repressione nella guerra civile del 1994.
Nel complesso, il passo indietro di Hadi, la tregua, la riapertura dei voli commerciali dall’aeroporto di Sana’a, la ripresa delle spedizioni di carburante dal porto di Hodeidah e la possibilità di discutere nuovamente dell’accesso alla città di Taiz, rappresentano i più significativi passi avanti dagli accordi di Stoccolma del 2018. Fondamentale è stato il ruolo di mediatore giocato in queste settimane dall’Arabia Saudita, coinvolta sin dal 2015 nella guerra a fianco del governo Hadi. Riad vuole porre fine al conflitto non solo per ragioni di sicurezza nazionale ma anche di immagine, dimostrando alla comunità internazionale di stare lavorando in buona fede per una soluzione politica dello stesso. Dopo anni di inconcludenti operazioni militari e sotto la pressione esercitata dagli attacchi missilistici sui propri confini, i sauditi hanno riconosciuto la necessità di favorire nello Yemen un framework istituzionale largamente inclusivo al fine di creare un fronte più equilibrato e compatto che possa isolare definitivamente i ribelli sciiti. Qualora il Consiglio dovesse riuscire a consolidare la propria autorità ed unità, gli Houthi andrebbero incontro a maggiori difficoltà nel blandire l’uno contro l’altro i propri i nemici sfruttandone le divisioni interne. Si tratterebbe di un fatto nuovo, potenzialmente capace di favorire un negoziato con maggiori chance di successo rispetto a quelli passati dal momento che il nuovo governo si presenterebbe al tavolo dei negoziati in una posizione di forza. Paradossalmente, proprio il rifiuto degli Houthi di partecipare alla conferenza di Riad ha favorito la nascita del Consiglio direttivo; sebbene molti pensassero che la loro assenza avrebbe svuotato di significato l’incontro, al contrario essa ha permesso di spostare il focus della discussione da quello che sarebbe stato un tentativo infruttuoso di negoziato politico omnicomprensivo ad una nuova opportunità per le altre fazioni yemenite di raggiungere un compromesso tra di loro. Parimenti, non si può ignorare il fatto che il nuovo Consiglio si troverà ad affrontare le medesime difficoltà sorte all’indomani dell’accordo di Riad del 2019, un’intesa che avrebbe dovuto portare ad una composizione tra CTS e governo Hadi attraverso la nomina di nuovi ministri e l’integrazione di rappresentanti della milizia nelle forze armate dello Yemen. L’inclusione di al-Zubaidi e al-Aradah, infatti, solleva dubbi non soltanto circa l’autonomia del presidente al-Alimi ma anche sulla possibilità che il nuovo esecutivo si trasformi in un’arena di contesa tra rivali che seguono scopi e obiettivi diversi.
Per incentivare l’intesa, il regno saudita ha promesso aiuti finanziari per tre miliardi di dollari da utilizzare per fornire liquidità alle banche yemenite, stabilizzare la moneta locale e migliorare le condizioni economiche del paese attraverso l’acquisto di prodotti petroliferi. Gli aiuti saranno suddivisi in un primo deposito di 2 miliardi di dollari presso la Banca centrale di Aden (congiuntamente agli Emirati Arabi Uniti) e in una seconda tranche da 1 miliardo ripartiti tra 600 milioni di dollari per l’acquisto di derivati petroliferi, 400 milioni per progetti di sviluppo e altri 300 milioni per finanziare il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite annunciato negli scorsi mesi.
A fronte di queste importanti novità, il portavoce degli Houthi, Mohammed Abdul Salam, ha dichiarato che i ribelli continueranno la loro “battaglia per la liberazione nazionale”. Nonostante la retorica e i messaggi di propaganda, le intenzioni del gruppo rimangono tuttora opache. Dopo la battuta di arresto che hanno subito le operazioni militari nei primi mesi del 2022, quest’ultimi potrebbero infatti aver intravisto nella tregua una comoda opportunità per riorganizzarsi, aumentare la mobilitazione popolare e riequipaggiarsi per una nuova fase offensiva dopo la festività di ʿīd al-fiṭr alla fine del mese di Ramadan.